Fuori dalle iridi

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I lividi sulle braccia non le facevano male quanto l’umiliazione che si era sedimentata dentro.
Le parole le scivolavano addosso, come gocce silenziose.
E cos’è un insulto, se non un ammasso di lettere, si diceva.
Ma lei non ci credeva davvero.
Lei una felicità voleva viverla davvero.
Lei una via di fuga la pretendeva.
Così chiuse il diario, gettò la penna contro il muro con tutta la sua forza.
E ciò che le restava nell’anima, si guardò allo specchio.
I suoi occhi erano neri, anche fuori dalle iridi.
Promise a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta.
Che non avrebbe più creduto alle scuse, alle promesse, ai sorrisi del giorno dopo.
Forse, non avrebbe amato mai più.
Probabilmente avrebbe imparato a odiare.
Ma sarebbe stato il giusto prezzo, per la libertà.

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Non può che farti bene

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Giulia si sentiva sbagliata.
Continuare a guardare quello specchio non le sarebbe servito a nulla.
Lo sapeva bene di essere bella, a confermarlo erano gli sguardi degli altri. Ma sapeva anche di sentirsi troppo lontana da ciò che quelle persone vedevano.
Anche quella notte aveva vomitato.
Ogni notte lasciava affondare il suo segreto in quel cesso. Ormai era una donna, ma quanto ci si può sentire trasparenti nel bel mezzo di un mondo che ha ben altro a cui pensare?
Qualche giorno prima aveva incontrato un ragazzo, era stato simpatico, avvolgente, così strano e differente da quella sfera di regole, convenzioni e pregiudizi in cui non si ritrovava. Le aveva detto “Giú, ti faccio provare una cosa”. Così lei aveva preso dalle sue mani una pastiglia. “Giú, non ti può che fare bene”.
Quella notte avevano ballato per tutto il tempo.
Quella notte non aveva nemmeno vomitato.
Eppure, di fronte a quello specchio, nulla era poi cambiato.
“Giú, stasera ti porto in un posto. Non può che farti bene.”
“Chissà quanto è alto il prezzo di sentirsi sbagliati”.
“Chissà se poi passa”, si chiedeva, mentre tutto attorno girava sempre più forte.
“Chissà se esiste davvero un mondo più giusto”, si domandò.
Ma si sentiva troppo stanca. Anche se, sotto gli occhi di tutti, non poteva permettersi di smettere di ballare.
“Vorrei solo tornare a casa”, si sussurrò.

L’idiozia della strategia del terrore

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La portavoce di Putin, Zacharova, afferma che gli europei sono affetti da idiozia.
Personalmente provo quasi un moto di orgoglio nell’essere definito come tale dalla portavoce di uno Stato che usa la strategia del terrore per vincere una guerra che nemmeno ha il coraggio di chiamare con il proprio nome.
Condivido la definizione associata alla Russia di Stato che sponsorizza il terrorismo, perché bombardare civili rappresenta la forma più vergognosa e becera di terrorismo.
Con la stessa sicurezza penso di essere dispiaciuto per il popolo russo, che non merita quella definizione per colpa di un pazzo qualche altro pupazzo al potere.
Dal medesimo punto di vista penso che gli amanti di Putin stiano rasentando il ridicolo.
Perché lo penso anche io che serva dialogo, mediazione e trovare un accordo. Non stiamo parlando di illuminati pensatori, ma di soggetti che sottovalutano un tema fondamentale: la Russia sta bombardando civili in un paese libero, che per quanto ne so potrebbe pure essere il nostro.
Dialogo, mediazione e accordo possono arrivare solo a una condizione: che la Russia torni sui suoi propri passi e abbandono questa vergognosa e becera strategia del terrore per provare a vincere la sua guerra.
Perché si chiama cosi: guerra.

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Trump è tornato

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L’account Twitter di Trump è tornato attivo, grazie alla nuova linea editoriale di Elon Musk, ora a capo del social.
È giusto che ognuno possa esprimere il proprio pensiero?
Sì, certo.
È giusto anche quando questo può provocare disordini mondiali e attacchi violenti a una sede di governo?
Dipende.

Dipende, perché in un sistema libero dovrebbe essere concesso mettere in discussione l’equilibrio del mondo “democratico”, quello costruito da un sistema e che in un thriller chiamerei Nuovo Ordine Mondiale.

Una cosa è certa, il sistema del mondo “democratico” ha già mostrato diverse falle, che si sono concretizzate in conflitti lontani, ma che poi sono diventati sempre più vicini. Fino a toccarci davvero troppo da vicino.

E ora abbiamo tutti un po’ più paura.

Il sistema costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale è in crisi.
Il futuro è sempre più a rischio.

Ma torniamo alle domande principali:
È giusto che ognuno possa esprimere il proprio pensiero?
Sì, certo.

È giusto anche quando questo può provocare disordini mondiali e attacchi violenti a una sede di governo?

Sì, in fondo è giusto.
Perché la responsabilità di creare i disordini è anche nostra.

La capacità di comprendere è anche nostra.

Nessuno di noi ha bisogno di leader che urla qualcosa da un palco.

Noi abbiamo bisogno di comprendere.

Quindi, sì, che Trump parli, che chiunque parli.

Noi saremo comunque qui a scrivere, leggere e a contestare, se servirà.

Perché la democrazia è anche questo.

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Dimenticarsi dei rischi

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Continuo a pensare che una pandemia mondiale non potesse che essere affrontata con le misure che sono state applicate in questi anni. E che per mitigare i rischi del contagio, ma soprattutto degli effetti del virus, siano necessari dei vaccini.
Lo dico adesso, perché é troppo comodo smontare, piuttosto che costruire un sistema.
Perché é troppo semplice perculare chi oggi si mette la mascherina anche se non è più obbligatoria.
Perché é quasi comprensibile che qualcuno dica “vivo qui da quindici anni e il fiume non è mai esondato”, a fronte di studi idraulici che invece dimostrano che potrebbe succedere, eccome.
Perché già ci stiamo dimenticando tutto.
Non penso che il problema sia dire o meno che tutto sia stato fatto nel modo perfetto.
Sicuramente si poteva far meglio.
Sicuramente si poteva fare qualcosa di diverso.
Ma ciò che non si dovrebbe fare è negare che fosse necessario.
Così come non si dovrebbe smettere di pianificare e progettare ogni tipo di emergenza, al fine di non farsi trovare impreparati.
Cosa che è accaduta con la pandemia, quando invece la ricerca diceva che poteva verificarsi quel tipo di fenomeno
Quello che non si dovrebbe pensare è che uno slogan possa difenderci dai rischi e dalle paure.
Gli slogan sono parole, ma i fatti sono un’altra cosa

Bianco è il colore del danno, di Francesca Mannocchi

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“Bianco è il colore del danno” di Francesca Mannocchi è un viaggio in una vita, nei suoi contrasti, nell’anima oscura di un conflitto che cambia ogni equilibrio e certezza. È una ricerca di consapevolezza, una sfida impari alla paura. Ma è anche una confessione potente, delle debolezze e delle fragilità di una donna. La scoperta di un mondo interiore. È il tentativo di perdonare e perdonersi, cercando qualcosa di sé, che inevitabilmente si è perso. Ma anche la volontà di trovare un nuovo punto di vista.

Il mutilatore di Marco Paracchini, edito da Golem Editore

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Il protagonista è Kenzo Tanaka, un detective privato, che, a seguito del ritrovamento di una serie di valigie contenenti parti del corpo appartenenti a delle giovani donne, affianca l’ispettore Gamanote in una corsa contro il tempo per fermare un feroce serial killer.
Una delle particolarità di questo noir è l’ambientazione, l’indagine si svolge, infatti, a Tokio.
Il Mutilatore è un noir dalla trama fitta ed efficace, che ricorda il primo Faletti e Murakami, in alcuni passaggi legati agli aspetti caratteristici del Giappone.
Il risultato è un romanzo con ottima leggibilità con spunti interessanti sulla vita, la cultura giapponese e su relazioni e rapporti tra personaggi.
Ottimo per chi ama i noir e per chi predilige una scrittura veloce, chiara e una trama diretta.

Il diritto alla vita, degli altri.

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Il diritto alla vita. Degli altri.
È il paradosso di chi vorrebbe vietare l’aborto, impedire il fine vita e tutta un’altra serie di limitazioni alla vita. Degli altri, appunto.
Gli Stati Uniti corrono più in fretta, alcuni degli Stati, almeno, e intercettano i dati delle applicazioni per la gestione del ciclo, messaggi privati sui social in cui si parla di aborto. Un mondo inquietante e oppressivo. Che impone di regolamentare la vita sessuale e le scelte personali, in nome di un estremo attaccato alla vita. Anche quella che nemmeno esiste ancora. Una platea di estremisti vorrebbe importare questo tipo di controllo anche nel nostro paese. Alcuni già lo fanno, imponendo con la propria obiezione di coscienza la non effettuazione delle interruzioni di gravidanza.
Quando la politica vuole mettere le mani sulla vita. Degli altri.

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Il suono di un nome

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Il camioncino aveva portato via le ultime cose.
Lo stabilimento balneare, per come lo ricordava, ormai non esisteva più.
Percorse il tragitto che dall’ingresso conduceva verso la spiaggia.
Dove per decenni c’erano stati i suoi ombrelloni, c’era solo sabbia e l’odore del vento di autunno.
Il vento sembrava quasi riportare il ricordo del vociare dei bambini, degli amori nati e finiti velocemente.
Si voltò verso i vecchi locali prefabbricati, per anni adibiti a cabine e spogliatoi. Le porte in legno, ormai logoro, che avevano visto passare le storie di migliaia di bagnanti.
A ricordarle ciò che stava per diventare passato, una barchetta che riposava a poca distanza dalla battigia.
Suo marito, quella barca, l’aveva amata tanto. A tal punto da assumersi la gestione dello stabilimento, attivitá che lei aveva ereditato da suo padre.
Ben presto quello che sembrava un salto nel buio si era tramutato in un vortice fallimentare. Lui aveva presto litigato con il personale storico dello stabilimento. Si era convinto che sarebbe riuscito a immettere personale giovane e più moderno. Ma i nuovi arrivati non c’entravano niente con quella realtà.
A nulla erano valsi i rimproveri, le minacce di licenziamento.
Dopo due anni, nessuno voleva più lavorare nello stabilimento.
Pian piano i vecchi clienti si erano trasferiti altrove.
Ora si rendeva conto che il silenzio che stava ascoltando, era iniziato molto tempo prima.
La barchetta era immersa nella sabbia, alzata dal vento che proveniva dal mare.
Si chiuse meglio il giubbotto per difendersi dal vento, o forse da quei ricordi, ormai troppo pungenti.
Ripensó a suo padre. A quando da bambina l’aveva lasciata scorrazzare per lo stabilimento. Alle prime esperienze lavorative, quando alla cassa assegnava gli ombrelloni disponibili, sotto l’occhio vigile del nonno, che a sua volta aveva gestito quello stabilimento.
Chissà cosa avrebbe pensato di lei, che aveva lasciato naufragare tutto, così, nel silenzio.
Si chiese se davvero fosse colpa sua. Forse l’errore era stato non vendere prima ai diretti concorrenti.
Forse l’errore era stato amare Carlo, il suo ex marito che un giorno aveva candidamente ammesso di essersi innamorato della signora che dava una mano a pulire lo stabilimento. E che con la stessa serenità aveva comunicato che sarebbe andato a vivere con lei.
Lanciò un ultimo sguardo a quella barchetta, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. Sperando, poi, di ricominciare a vivere.
Il nome della barca era stato quasi del tutto cancellato dalla fiancata. Il nome che suo padre le aveva dato: Romanza.

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Cosa intendete per famiglia?

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Famiglia. Famiglia.
Ok, ma cosa intendete per famiglia?
Come sempre siamo in campagna elettorale e come sempre vengono somministrate tonnellate di luoghi comuni, di cui la maggior parte di noi non ricorda nemmeno la genesi.
E allora partiamo da qui.
Storicamente il concetto di famiglia ci viene propinato come mamma, papà e tanti figli. E fin qui spiegata la sintesi generale e populista utilizzata dalla maggior parte dei candidati.
Solo che in questi secoli la dinamica della “famiglia” è cambiata. O meglio si è integrata con tutti i dogmi vietati per secoli dalla Chiesa. Ebbene sì, da una filosofia religiosa millenaria, che a sua volta ha subito mutazioni per stare dietro alla fuga dei fedeli, i quali non credono più alle cieche minacce demoniache.
Quindi oggi il concetto di famiglia è ampliabile a diverse realtà. Uomo single con figli. Donna single con figli. Uomo, uomo. Donna, donna. E via discorrendo.
Per cui è facile generalizzare che il concetto storico di famiglia prevedeva un uomo che va a cacciare (lavorare  nei tempi relativamente più recenti) e la donna annullava se stessa per acudire anche decine di figli. E parliamo di figli, allora.
Si parla spesso di denatalitá. Mai delle cause.
Una è derivata da un fattore determinante. Le donne lavorano, per cui non è più riproponibile il modello storico di cui sopra. È impossibile prendersi cura di decine di bambini, lavorando. I servizi di sostegno sono scarsi o, peggio, fruibili solo per fasce di reddito alte. Ma c’è un altro fattore importante. Nella nostra società nessuno vuole rinunciare ai propri interessi per annullarsi per crescere più figli.
Un altro fattore ancora.
Storicamente i figli venivano messi al mondo per un motivo. Creare forza lavoro. Oggi lo stesso fattore non è cambiato, perché in prospettiva mancheranno lavoratori per pagare le prossime pensioni. Risulta evidente che coniugare le due cose sia a oggi impensabile.
A colmare la lacuna può esserci l’immigrazione.
E torniamo alla campagna elettorale di cui sopra, la stessa morale che porta a idolatrare la famiglia storica, vorrebbe bloccare con tutti i mezzi l’immigrazione.
Al netto che esiste immigrazione regolare e clandestina e su cui occorrerebbe fare un discorso a parte, questo tema genera contrapposizioni che vanno a fondersi, anche in questo caso, con una storia recente che ha fatto del razzismo, una bandiera. La stessa morale che non riconoscerebbe nemmeno una famiglia formata da soggetti con etnia diversa.
Torniamo quindi al questito iniziale: cosa intendete per famiglia?