Recensione romanzo “Il Marchio del diavolo” di Gleen Cooper

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Il thriller deve necessariamente avere dei punti fermi: velocità, suspence e una bella storia da raccontare. Green Cooper li conosce molto bene e sa come orchestrare una linea narrativa con colpi di scena, snocciolando avvenimenti che hanno luogo in tempi differenti. Questa storia infatti corre parallelamente tra l’epoca di Nerone e quella attuale. La protagonista, Elisabetta, è una giovane archeologa che riesce capire l’importanza di alcune raffigurazioni astrali, rappresentate in una tomba romana (San Callisto) e chiede di approfondire le ricerca, cosa che le viene impedito. A seguito dell’omicidio del fidanzato Marco da parte di due malviventi, lei decide di diventare suora. Ma il passato torna misteriosamente nella sua vita, conducendola ancora una volta in nella tomba di San Callisto. La storia che Cooper racconta è ricca di intrighi e colpi di scena, inseguimenti e scoperte, costruendo una realtà alternativa che fa riflettere. Struttura ben solida e una semplicità nel raccontarla sono le caratteristiche della tecnica  narrativa di questo autore, balzato alle cronache dopo il successo del suo romanzo “La biblioteca dei morti”. In genere si può dire che “Il Marchio del diavolo” sia un bel thriller, ma non si può negare che il respiro ricalca terreni già esplorati da altri scrittori, soprattutto per quanto riguarda l’intrigo in vaticano durante l’elezione del nuovo pontefice, ma sono tuttavia sottigliezze, il libro si legge bene, è veloce e attrae dall’inizio alla fine. Ottimamente costruiti i personaggi e le loro storie, compresa la figura di Cristopher Marlowe che spicca nel conflitto tra protestanti e papisti.

Recensione concerto dei Ri-Cover @Cortile del Maglio, Torino

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Ci sono cose che possono essere definite soltanto con un nome e quello che può descrivere la musica dei Ri-Cover è uno: rock. La nuova formazione del gruppo propone una musica trascinante e ritmata, che parte dalle canzoni italiane degli anni ’60 e le trasforma in qualcosa di diverso, di esplosivo, così “Nessuno mi può giudicare”, “Cuore matto”, “Amore disperato”, “Eppur mi sono scordato di te” e “Se bruciasse la città” , che sono di per sé la storia della musica italiana, diventano bombe di musica, facendo cantare, gridare e ballare. Questa è la forza dei Ri-Cover. Parliamo ora dei musicisti di questa band. Spicca il ritmo indiavolato del batterista Alex Nicoli, preciso e determinato, e del basso di Seba, attento e puntale. Come non citare l’eleganza graffiante e il tocco magico del chitarrista Giorgio Josh Angotti. C’è anche una voce? Eccome se c’è, ed è quella diClaudia Salvalaggio, artista poliedrica che sa regalare sprint e ironia, divertendo con siparietti con siparietti surreali con Josh e gli altri musicisti. Claudia grida, sussurra, ammalia. Direi che senza ombra di dubbio i componenti della band hanno la musica nel sangue e un’energia che esplode nella potenza del suo incedere. Non è mai facile ri-arrangiare pezzi italiani e si corre sempre il rischio di intraprendere strade sbagliate, ma i Ri-Cover hanno trovato quella giusta, stravolgendo canzoni e arricchendole di sonorità moderne, con variazioni intriganti e affascinanti, il tutto con un’attenzione che deriva dalla passione per la musica, che si sente in ogni nota suonata dai quattro artisti. Spero di poterli ascoltare ancora, poiché questa prima esibizione è stata convincente e ha mostrato capacità musicali non indifferenti e una miscela di bella musica, potenza e fantasia. Da riascoltare molto volentieri.

L’inganno

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Futili come pensieri che aleggiano nella mente. Inevitabili, come il naufragio delle stelle. Sono i percorsi della vita, quelli che dimentichiamo al bar come un mazzo di chiavi qualunque. E spesso capita di pensare a come tutto sia così fragile, aleatorio. Quanti progetti facciamo, convinti che tutto sia eterno, che non ci sia una fine. Poi ti accorgi che una persona svanisce, e qualcosa dentro di te cambia. Ti rendi conto che non c’è sempre una seconda pagina del libro, non c’è sempre il finale che vorresti. Si vorrebbe imparare a vivere la vita, istante per istante, eppure navighiamo in mari e oceani di “vorrei”, “se”, “ma” e così perdiamo tempo. Tempo prezioso.  Rinviamo i momenti e nascondiamo quello che vorremmo dire. E’ come quando ti viene in mente una poesia, una canzone, ma non hai voglia di scriverla, così la dimentichi. La ignori. E lei svanisce, come svanisce una persona, così, in un attimo. Ci sono mali che non sappiamo combattere, questa è la verità. La nostra arroganza ci spinge a sentirci immortali, ma non lo siamo. Perché è di questo che parliamo, le parole poetiche ci aiutano a dire tante cose, ma così facendo le celiamo dietro a distese di spighe di grano. Ci inganniamo. E lo facciamo tutti i giorni, illusi dalle nostre parole, dai nostri sogni. Torno a scrivere quando sento un formicolio dentro, qualcosa che vuole uscire e resto in silenzio quando il groviglio di parole che riecheggiano nell’etere mi fa venire male alle orecchie e finisce per stordirmi. Ma anche nei silenzi ci sono delle verità e delle emozioni, perché tante volte si parla a sproposito, si urla e si dimentica di quello che è davvero importante: nessuno svanisce mai davvero. Ed è proprio quando tutto sembra cadere sotto i colpi inesorabili del tempo, quando la partita sembra impossibile da vincere, che bisogna attaccare. Ribaltare il risultato e nel farlo, godersi la partita, uscire dal campo tra gli applausi del pubblico. Anche se hai perso. E quella non sarà mai una sconfitta, sarà la vita.

Presentazione del nuovo libro di Franco Forte – Il segno dell’untore

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Franco Forte, autore dei romanzi di straordinario successo “Roma in fiamme”, “I Bastioni del coraggio” e “Carthago”, ci presenta il suo nuovo libro “Il segno dell’untore”, che potrete trovare in libreria del 17 gennaio. Le premesse sono ottime, un thriller storico con personaggi attraenti e originali, un’ambientazione curata come solo Franco Forte sa fare e una storia che ispirano azione, emozioni e avventure epiche di alto livello. Pubblichiamo una breve scheda del romanzo e un’intervista che l’autore ci ha gentilmente concesso.

IL LIBRO

Milano, anno del Signore 1576. Sono giorni oscuri quelli che sommergono la capitale del Ducato. La peste bubbonica è al suo culmine, il Lazzaretto Maggiore rigurgita di ammalati, i monatti stentano a raccogliere i morti. L’aria è un miasma opaco per il fumo dei roghi accesi ovunque.

In questo scenario spettrale il notaio criminale Niccolò Taverna viene chiamato a risolvere due casi: un furto sacrilego in Duomo e un brutale omicidio. Chi ha assassinato il Commissario Inquisitoriale Bernardino da Savona? E perché? E chi ha rubato il candelabro di Benvenuto Cellini dal Duomo?

La figura del notaio criminale che si muove nel suggestivo scenario della Milano del 1500, dominata dalla Corona di Spagna e minacciata dalle continue epidemie di peste, è alla base del romanzo “Il segno dell’untore” di Franco Forte (Mondadori, in libreria dal 17 gennaio 2012), che ha per protagonista il giovane magistrato Niccolò Taverna nella capitale del Ducato nel 1576.

Investigatore astuto, intelligente, grande osservatore di particolari che sfuggono a inquirenti e criminali, Niccolò Taverna si trova a dover risolvere difficili casi di omicidio in un clima di tensione tra il Governatore della città, il potere clericale, rappresentato dalla figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo, e la Santa Inquisizione spagnola, che vede nell’arcigna figura di Guaraldo Giussani il suo nume tutelare.

Nel primo romanzo delle indagini di Niccolò Taverna, questo straordinario personaggio che sfrutta tecniche investigative a volte sorprendentemente moderne, per quanto perfettamente calate nel contesto storico in cui si muove (e ben documentate dall’autore) si muove in un mondo ricostruito alla perfezione, facendo compiere al lettore un vero e proprio salto all’indietro nel tempo di quasi 500 anni, in una Milano in cui, sullo sfondo del Duomo ancora in costruzione, delle colonne di fumo che si sollevavano dai fopponi, le fosse comuni in cui si bruciavano i morti di peste, dei conflitti di potere tra Stato e Chiesa, la criminalità dilaga incontrastata e stupri, furti e omicidi sono pratiche all’ordine del giorno.

Quella che Niccolò deve seguire è un’indagine incalzante, con lo spettro incombente della Santa Inquisizione che incombe ovunque, per risolvere un caso di omicidio che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso. Lo stesso arcivescovo Carlo Borromeo pare implicato, così come le più alte cariche della Corona di Spagna e della Santa Sede. Per non parlare dell’ordine degli Umiliati, che il Borromeo ha cancellato e che già una volta ha cercato di uccidere l’arcivescovo di Milano.

Sfruttando le sue straordinarie capacità investigative e le tecniche d’indagine dell’epoca, il Notaio Criminale Niccolò Taverna cerca di venire a capo di questi due intricati casi, che rischiano di compromettere la sua carriera e la sua stessa incolumità. Pur sostenuto da un intuito eccezionale, è costretto a combattere contro troppi nemici, tutti troppo potenti: pericolosi assassini, la Santa Inquisizione, la peste, i cui artigli ghermiscono proprio chi Niccolò ha di più caro.

Per il più abile Notaio Criminale di Milano la sfida è aperta e la posta in gioco è alta: la propria carriera e la propria incolumità. Oltre all’amore per una fanciulla nei cui occhi ha l’impressione di annegare.

Un thriller straordinario, che non concede soste al lettore, sostenuto da una rigorosa ricostruzione storica.

INTERVISTA A FRANCO FORTE SU IL SEGNO DELL’UNTORE

Il 17 gennaio 2012 Franco Forte, apprezzato scrittore di romanzi storici, direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (Gialli, Urania e Segretissimo), nonché direttore responsabile di importanti riviste quali la Writers Magazine Italia (www.writersmagazine.it) e la Romance Magazine (www.romancemagazine.it), tornerà in libreria con il suo nuovo romanzo, un thriller medievale ambientato nella Milano del 1576, all’epoca della grande peste bubbonica che falcidiò la popolazione ben più di quanto fece quella di manzoniana memoria. Ma di cosa parla esattamente questo libro, che appare fra i più interessanti fra quelli scritti da Franco Forte? Ecco una breve trama, giusto per inquadrare il romanzo.

Milano, 1576. Nel drammatico giorno della morte della moglie, consumata atrocemente dalla peste, il notaio criminale Niccolò Taverna viene convocato dal Capitano di Giustizia per risolvere un difficile caso di omicidio. La vittima è Bernardino da Savona, commissario della Santa Inquisizione che aveva il compito di far valere le decisioni della Corona di Spagna sul suolo del Ducato di Milano. Ma non solo: Bernardino aveva ricevuto l’incarico di occuparsi degli ordini ecclesiastici “difficili”, come gli Umiliati, messi al bando dall’arcivescovo Carlo Borromeo, mansione che ha reso ancora più difficili le relazioni tra potere secolare (Corona di Spagna) e potere temporale (Chiesa di Milano). Contemporaneamente, Niccolò Taverna deve anche riuscire a individuare il responsabile del furto del Candelabro del Cellini trafugato dal Duomo di Milano. Ma ben presto si accorge che la ricerca del Candelabro si rivela una pista sbagliata perché un altro oggetto, ben più prezioso, è stato sottratto: la reliquia del Sacro Chiodo della Croce di Cristo. In una Milano piagata dalla peste e su cui si allunga l’ombra della Santa Inquisizione, il notaio criminale Niccolò Taverna deve sfruttare tutte le sue straordinarie capacità investigative per venire a capo di questi due intricati casi.

Franco, una storia che appare davvero molto interessante, e forse per te un ritorno al thriller più canonico, per quanto all’interno dell’impianto del romanzo storico che ci hai abituato a costruire così bene.

Sì, in effetti “Il segno dell’untore” è una sorta di compendio di tutto ciò che ho imparato scrivendo prima thriller (come “China Killer” e “La stretta del Pitone”) e poi romanzi storici (da “I Bastioni del coraggio” a “Carthago” e “Roma in fiamme”). E mi pare di aver centrato il bersaglio, perché questo personaggio che ho costruito, il notaio criminale Niccolò taverna, è davvero affascinante e originale, te lo posso garantire.

Giusto, parlaci di lui. Chi è esattamente Niccolò Taverna?

E’ l’equivalente del 1576 di un moderno commissario di polizia. I notai criminali erano i magistrati che a quel tempo, a Milano, indagavano sui casi di omicidio, sui casi criminali e sulle ruberie, e lo facevano adottando tecniche investigative sorprendentemente moderne, per quanto i loro strumenti più efficaci per trovare i colpevoli fossero l’intuito, l’istinto e l’esperienza. Ma trutto ciò che i miei personaggi fanno, è rigorosamente documentato, e quindi sorprenderà vedere quali tecniche investigative possedevano.

Facci qualche esempio.

Nel romanzo ce ne sono a bizzeffe e, come detto, non si tratta di mie invenzioni, bensì del risultato di un lungo lavoro di ricerca e documentazione che mi ha portato a scoprire come questi funzionari del Tribunale di Giustizia di Milano fossero davvero all’avanguardia, per ciò che atteneva le indagini di polizia. Per esempio, erano soliti portare con sé dei bastoncini con la punta ricoperta di cera, con i quali frugavano fra gli oggetti appartenuti alle vittime di un omicidio, o su ciò che trovavano sul luogo di un delitto. Perché? La nostra mentalità moderna ci spingerebbe a rispondere: per non inquinare le prove. Ma naturalmente, dato che non esistevano analisi scientifiche, a quell’epoca, il motivo è ben altro. I notai criminali usavano quei bastoncini per frugare con sicurezza (secondo le credenze dell’epoca) fra gli ogetti rinvenuti sui luoghi degli omicidi senza rischiare di toccare qualcosa che potesse essere stato infettato dalla peste, che nel 1576 stava decimando la popolazione di Milano. Credevano che se avessero toccato qualcosa imbevuto dell’umore della malattia, questo sarebbe scivolato sulla cera dei loro bastoncini, e con una semplice scrollatina se ne sarebbero liberati, senza rischiare contagi.

Questo mi fa capire quanto sia accurata la ricostruzione che fai di quel periodo storico.

E’ proprio così: nulla è lasciato al caso, e Niccolò taverna si muove, mentre sviluppa le sue indagini, in una Milano ricostruita perfettamente nella sua coerenza storica, non solo ambientale, ma anche riguardo la vita di tutti i giorni: cosa mangiavano, come si vestivano, quali attività svolgevano le persone in quel preciso momento storico. A emergere, dunque, non è soltanto la storia di un magistrato che indaga sull’uccisione di un inquisitore (e sul furto di un oggetto sacro dal Duomo), ma anche la rappresentazione di un periodo storico molto difficile e per certi versi affascinante della Milano della seconda metà del 1500. La Milano sotto dominazione spagnola che vedeva contrapporsi il potere della Corona di Spagna e della Santa Inquisizione, a essa collegata, a quello del Soglio di Pietro, che vedeva nella figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo (che poi diventerà San carlo) un baluardo di primo piano nel conflitto tra potere secolare e potere temporale.

Ma quanto parte di thriller e di romanzo “giallo” c’è, ne “Il segno dell’untore”, rispetto al classico romanzo storico?

Non c’è una prevalenza dell’uno rispetto all’altro, bensì un continuo amalgamarsi e intersecarsi delle due cose. La ricostruzione storica e il respiro sociale e culturale dell’epoca sono da sfondo a una intricata indagine che deve fare i conti con gli strumenti limitati dell’epoca e la capacità del notaio criminale Niccolò taverna di risolvere i casi grazie alla sua inteligenza e alla sua esperienza. Ma tutto si muove in armonia con il periodo descritto, rispettando la coerenza che qualsiasi buon romanzo storico richiede, pur offrendo al lettore l’impianto, le emozioni e il ritmo di un thriller attuale e congegnato nei minimi particolari.

Mondadori sta facendo una forte campagnia di marketing e di promozione nei confronti di questo romanzo, che apre il 2012 per la collana Omnibus italiani. C’è una strategia precisa, dietro a tutto questo?

Sì, l’editore vuole iniziare il nuovo anno dando un segnale chiaro ai lettori di un grosso mutamento che ci sarà per i rilegati Mondadori. Il mio romanzo è il primo di un nuovo corso studiato con intelligenza, che vuole coniugare un prezzo più aggressivo e abbordabile dal pubblico rispetto al passato (15 euro anziché i soliti 20 euro), senza però svalutare i titoli che saranno presentati, puntando quindi alla massima qualità possibile dei testi da pubblicare. Sono felice di essere un po’ l’apripista di questo nuovo corso, e mi auguro che il mio notaio criminale riesca a farsi apprezzare dal pubblico per continuare a proporre le sue indagini mozzafiato.

C’è qualche collegamento fra questo romanzo e il tuo precedente, “I bastioni del coraggio”, anch’esso ambientato nella Milano del 1500?

Tra le due vicende sono passati trent’anni, e qualche personaggio lo si ritrova ancora ne “Il segno dell’untore”, per quanto non più come protagonista. Per esempio Anita, che ne “I bastioni del coraggio” era una delle eroine del libro, qui è la moglie di Niccolò Taverna, anche se la sua parabola narratva risulta piuttosto breve. E lo stesso accade per altri personaggi, come per esempio il perfido Inquisitore Generale Guaraldo Giussani, di cui non ci eravamo sbarazzati ne “I bastioni del coraggio”. Un giorno o l’altro scriverò un romanzo che farà da collegamento fra questi due titoli, descrivendo che cosa è successo in quei trent’anni di distacco fra un libro e l’altro.

PER VOI IN ANTEPRIMA I PRIMI DUE CAPITOLI DELL’OPERA “IL SEGNO DELL’UNTORE”.

La redazione del portale Causaedeffetto.it ringrazia l’autore Franco Forte per averci concesso questa anteprima.

Recensione romanzo “Agent 6” di Tom Rob Smith

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Il terzo capitolo della trilogia ideata da Tom Rob Smith “Agent 6” si differenzia molto dai due romanzi precedenti “Bambino 44”“Il Rapporto Segreto”. Il protagonista è ancora una volta Leo Deminov, personaggio complesso, articolato ed enigmatico. Tutto inizia con l’organizzazione del concerto della pace, organizzato a New York dalla moglie di Leo, Raisa, e al quale parteciperanno le due figlie Elena e Zoja. Complicazioni burocratiche impediranno a Leo di partecipare alla manifestazione. L’evento nasce per migliorare i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nel bel mezzo della guerra fredda, ma si trasforma in un intrigo internazionale, in cui spie e personaggi ambigui diventano la chiave dell’enigma contro il quale Leo dovrà confrontarsi: chi è Agent 6? Chi è colui che ha distrutto ciò che amava di più al mondo? Leo deve affrontare forse la peggiore delle sfide, ritrovare se stesso, salvare la sua famiglia e vendicarsi. Per farlo dovrà raggiungere gli Stati Uniti, cosa molto difficile per un ex agente del Kgb. Per farlo sarà disposto a fare ogni cosa, anche a ritornare a essere un agente del Kgb.

“Agent 6” è un romanzo introspettivo, che non rinunciare all’azione e alla sfida, il tutto costruito egregiamente, con un’ambientazione storica ben studiata e ricca di particolari. Il finale di questa storia chiude la trilogia nel miglior modo possibile, regalando l’emozione che ogni lettore cerca in un libro. La scrittura veloce e dinamica dell’autore si rivela azzeccata anche in questo nuovo lavoro, che a tratti risulta però più lenta, ma è lecito quando si deve affrontare una crisi interiore, che distrugge dentro il personaggio e ciò in cui crede. La bella moglie Raisa svolge un ruolo chiave nella trilogia di Leo Deminov, così come lo sono le due figlie Elena e Zoja, che mettono a nudo la vera anima del protagonista che, anche in questo caso, si rivela un eroe imperfetto e umano. Un libro da leggere, così come i primi due romanzi di Tom Rob Smith.

Intervista a Elena Piastra, giovane assessore all’innovazione della Città di Settimo Torinese

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La politica è un’arte e come tale è giusto affrontarla. Ci sono confini sfocati, tecniche da utilizzare e spesso chiaro-scuri a noi incomprensibili. L’attuale situazione politica italiana deriva sia dalla storia del nostro paese, sia dall’attualità che abbiamo imparato a conoscere e che spesso ha superato la nostra immaginazione. Nel bel mezzo di una crisi economica, ma che di valori e principi, il nostro paese sta cercando la strada giusta. In 150 anni di storia il nostro paese ha superato guerre e tensioni di ogni genere, perdendo sempre un po’ di sé o, semplicemente, non crescendo mai davvero, così tra intrighi, giochi sporchi e inquietanti connubi tra politica ed economia siamo giunti ai giorni nostri e questa crisi. Proprio in questo momento è importante capire cosa sta accadendo, quali sono le idee della politica per creare un’Italia nuova, con una coscienza. Ed è proprio per questo che abbiamo deciso di porre alcune domande a un giovane politico italiano con idee e voglia di fare: Elena Piastra, assessore all’innovazione della città di Settimo Torinese, una realtà con origini antiche, prima città delle penne, poi dell’industria e che ora apre il suo universo alla cultura, anche grazie alla nuova biblioteca multimediale. Il suo curriculum lascia trasparire l’attitudine al lavoro e all’impegno: da barista a professoressa di scuola superiore e ora concreta speranza di una nuova politica.

1. Quali sono le idee vincenti per trasformare la politica vecchia e stanca che ha portato il nostro paese a questa crisi di idee e valori?

Non so quali idee possano essere vincenti, ma intanto credo che occorra avere idee. Nel senso che occorre pensare a un modo nuovo per risolvere un problema vecchio, occorre fare ipotesi, creare relazioni tra la situazione reale e tra ciò che si potrebbe fare, alle volte anche con ciò che già si fa, magari in altri Paesi che non siano il nostro. Intendo dire che alle volte ho la sensazione che la politica italiana (intendo quella dei vertici) sia rappresentata da una massa informe di persone, riunite nello stesso luogo, prive di idee, di voglia di pensare, di proporre prospettive nuove.

2. Come interpreti gli effetti di questa crisi sul nostro paese e sul resto del mondo?

Gli effetti sono ancora poco interpretabili. Per adesso siamo nella fase in cui il sistema economico esistente continua a riprodursi (ad esempio molte aziende continuano a delocalizzare). Non so dirti se la crisi contemporanea sia capace di creare una frattura tale da far cambiare rotta. Io spero che in primis si riesca a favorire un sistema di flessibilità lavorativa più sicura che, anche in una realtà di lavoro completamente cambiata, riesca a garantire una vita accettabile. Certo non intendo dire che occorra rinunciare a diritti acquisiti nel passato, ma temo che la politica, e il sindacato, troppo spesso si arrocchi nella tutela di diritti esistenti che rischiano di diventare privilegi se non si riesce a garantire anche le nuove tipologie contrattuali (mi riferisco in modo particolare alle tante discussioni sull’art. 18).

3. Ritieni siano più valide le idee di Veltroni o di Renzi? A chi dei due ti ritieni più vicina?

Non mi sento vicina a nessuno dei due. Ma, come nel migliore spirito pluralista del mio partito, temo alcuni aspetti dell’uno e dell’altro. Intanto di Renzi mi preoccupa il culto del singolo, questa politica figlia del “berlusconismo” che crede che le idee e il partito che le rappresenta siano un’appendice del leader. Io credo ancora che le persone abbiano bisogno di riconoscersi nelle idee ancora prima che nella persona, credo che l’appartenere a uno schieramento serva per ricordare anche a se stessi gli obiettivi, credo inoltre che si tratti di un partito reale, fatto di tante storie che non è sempre facile far convivere (non penso cioè che in Italia sia realizzabile quel modello bipolare tanto caro a Veltroni). Credo inoltre che, e in questo ha davvero ragione Renzi, non si possa più usare un vecchio modo di far politica, quella chiusa in se stessa che decide di sé e delle poltrone, ma che occorre usare i nuovi media, che sia utile farsi intervistare mentre si cammina per Firenze e si salutano i propri cittadini, che sia persino importante fare i convegni in stazione. Credo però che la politica sia anche onestà, anche con se stessi, oltre che con gli elettori e che parlare di “rottamare il vecchio”, quando il mio essere in politica è frutto di quel sistema sia poco corretto; inoltre, far politica vuol dire anche imparare il sistema, l’organizzazione, le regole, e per far questo occorre qualcuno che mostri il metodo (metodo modificabile certo, ma intanto devi impararlo). Dire che il vecchio fa schifo e va distrutto è accettare anche quella visione della politica marcia che tanto va per la maggiore: bisogna tutelare, difendere ciò che di buono la politica, le politiche (intendendo i vari livelli, dal locale al nazionale) hanno fatto. La demagogia mi ha sempre fatto paura.

4. Innovazione: Come la cultura può e deve aiutare il processo di innovazione in un paese che spende poco e male in istruzione?

La cultura è la parte fondamentale di uno stato (intendo con cultura non l’intelligenza isolata dal resto del sistema, ma le varie forme del far cultura, dalla cultura del lavoro a quella della sicurezza, a quella dell’ integrazione, a quella dell’utilizzo delle risorse…). Il fatto che da anni si investa così poco nella scuola è, secondo me, la prima causa della grande difficoltà che il nostro Paese affronta. La scuola è il luogo dove vengono veicolate le vere informazioni sulla società in cui vivi. Noi abbiamo un sistema scolastico che non riesce a garantire alcun diritto: classi troppo numerose, allievi stranieri che non riescono ad avere percorsi preferenziali, alcune difficoltà non gestite (mi riferisco al tema della dislessia e disgrafia in modo particolare e alle varie disabilità in generale). È una scuola che si affida totalmente alla volontà e alla capacità (peraltro non valutata nel corso del tempo) dell’insegnante. Un’università che quest’anno ha visto tagliare in modo clamoroso in diritto allo studio, che chiede una fideiussione bancaria ai figli degli immigrati.

5. Secondo te la diffusione della tecnologia ha in qualche modo diminuito le capacità di apprendimento dei giovani?

Affatto. Questa è una vecchia storia. Da quando si sosteneva che la scrittura avrebbe deteriorato la capacità di ricordare e memorizzare, al passaggio su altri metodi di scrittura (dalla macchina da scrivere, al computer), si è sempre tentati dal pensare che la nostra capacità cognitiva venga limitata dallo sviluppo tecnologico. Io credo invece che stia cambiando profondamente il modo di pensare, credo che i giovani siano più abituati di me a cogliere l’essenziale di un discorso e l’intero processo cognitivo stia subendo dei cambiamenti importanti. Molti di questi cambiamenti non sono ancora prevedibili: sicuramente occorrerà a breve adattare e modificare i sistemi di spiegazione in classe, perché stanno cambiando i metodi di apprendimento. Immagina cosa vuol dire scrivere un testo oggi: si taglia, si copia, si elimina, quasi nulla del processo di costruzione rimane sul foglio, si perde quella che era la ricorsività, la possibilità di tornare indietro tipica dello scritto, di ricontrollare. La scrittura su computer è a metà tra le caratteristiche dell’orale e quelle dello scritto che ci insegnavano a scuola. Non parlerei quindi mai di impoverimento, ma di radicale cambiamento. 6. La semplificazione della comunicazione, grazie ai meccanismi multimediali (Face book, Youtube) mette a rischio lo sviluppo dei ragazzi? Secondo te, ne comprendono i rischi? Anche in questo caso, non sono d’accordo con chi sostiene che la lingua si stia impoverendo. La lingua sta cambiando: sta introducendo strutture nuove e ne sta perdendo altre, come d’altronde fa da sempre… La velocità della scrittura sui social media la rende molto vicina all’orale, dove le regole della grammatica e le scelte lessicali sono molto meno ferree. Questo spiega, secondo me, la semplificazione lessicale. Il bisogno di scrivere velocemente spiega anche le frequentissime abbreviazioni (xkè, +, ;-)…). Una sorta di lingua dattilografata… Se si vuole, il problema è che spesso i ragazzi sono così abituati a scrivere in quel modo che alle volte dimenticano di essere in classe e continuano ad usare la medesima lingua degli sms…ma in tal caso verranno corretti, esattamente come quando fanno un errore ortografico (d’altronde quante volte a noi, vecchia generazione, hanno detto: stai scrivendo, non parlando…questa frase non si scrive così).

7. Politica-Media: Quanto è importante la rete e come può condizionare la politica?

La rete, per UN politico, è fondamentale, almeno nella fase di “propaganda politica”. È un megafono formidabile: un tweet può raggiungere un numero impressionante di persone (non credo esista un politico senza profilo facebook, molti organizzano blog). Ma il rapporto tra la rete e la politica è un tema molto importante, con il quale sarà doveroso confrontarsi a breve: sta cambiando il concetto di partecipazione democratica. Oggi la rete è usata soprattutto per amplificare, per portare le opinioni a più persone e in tal senso è usata dai cittadini soprattutto per fare segnalazioni, per criticare il sistema. Secondo me è sintomatico, perché è l’esito di un’idea di politica che non risponde alle richieste, immobile, da pungolare. Tuttavia, questo è ancora un vecchio sistema di partecipazione, attraverso mezzi moderni: è credere che scrivere sull’indirizzo fb del comune sia partecipare alla vita politica, credere che criticare o sostenere con una tag faccia la differenza: questa visione è vecchia e mi preoccupa. Partecipazione democratica non è dire la propria. È partecipare laddove le cose si cambiano, nei centri del potere. Altrimenti rischiamo di passare il nostro tempo a scrivere commenti senza capire che le scelte reali si fanno altrove. Significa arrivare a presentarsi come soluzione alternativa perché nuova (apparentemente nuova, perché usa mezzi nuovi) come è successo al partito pirata tedesco, per poi non sapere cosa significhi amministrare davvero e non avere proposte realizzabili. Io credo in un sistema diverso: certo non tutti sono tenuti a provare a far politica in modo diretto, ma credo in un sistema in cui il cittadino non propone solo il problema alla classe politica, ma è parte vera della comunità e offre anche la soluzione possibile: offrire soluzioni significa tentare di comprendere la macchina amministrativa e capirla al punto di saper elaborare soluzioni reali. Nelle soluzioni proposte dal cittadino, si intravede il valore della classe politica (nella capacità di confronto, di apertura).

Ringrazio l’assessore Elena Piastra per avermi gentilmente concesso questa intervista.

 

Recensione “Nella stanza degli specchi” di Valentina Amandolese

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Le sue canzoni sono rock e melodica poesia ammaliante che come unghie taglienti lasciano il segno. Valentina aggredisce con la sua voce roca, dura e accattivante che vola su una musicalità suadente densa di sapori. C’è una miscela strana in questi pezzi, che viaggiano tra la tradizione e l’innovazione, tra giorno e notte più scura. Come due identità che si uniscono in una sola realtà Valentina riesce a raggiungere un equilibrio che le consente di far ascoltare delle canzoni originali e intriganti. “Cosmico blu” è un pezzo ritmato e graffiante, ottimamente suonato. “Stringi i denti Valentina” si rivela invece una canzone che parla all’autrice come da un luogo distante, misterioso, in bilico tra identità e dimensioni diverse. Molto bello il finale quasi mistico. In “Imago” Valentina quasi balla tra le parole e la musica, come nutrita da una leggera insolenza, che rende la canzone avvolgente, in una metrica particolare e intrecci di parole ben studiati, così come accade in “Osmosi”. La cover di Jimi Hendrix “Bold as love” ha un sapore internazionale, non solo per la lingua, ma per il suono delle chitarre e dell’atmosfera che con la voce di Valentina riescono a creare. Partire, cambiare, tornare alla vera anima è ciò che si percepisce ascoltando “Nessun biglietto per il mare”. Come lo specchio che tradisce difetti, come l’immagine sfocata disegna l’essenza della sua verità in “In terza persona” l’autrice scruta luoghi sconosciuti o forse conosciuti troppo bene per poterli capire davvero. “Lo stesso viaggio” è criptica e ipnotica, un canzone che fa riflettere e soffermarsi sui più piccoli dettagli. “Nella stanza degli specchi” è indubbiamente un album interessante, ricco di sfumature e lati da scoprire. Si percepisce personalità, forza e determinazione. Carisma. E’ un album che merita di essere ascoltato con pazienza, che ha bisogno di arrivare in fondo. Un bel disco.

Recensione romanzo “Il rapporto segreto” di Tom Rob Smith

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“Il rapporto segreto” di Tom Rob Smith è un romanzo intrigante che fa luce nell’animo più profondo e inconscio dei nostri pensieri, delle nostre idee, il tutto catapultando il protagonista, ancora una volta Leo Demidov (come in Bambino 44), nella realtà svelata del periodo storico che segue la morte di Stalin. Il protagonista avrà poco tempo per salvare sua figlia, Zoja, che ha adottato tempo prima insieme alla sorellina Elena, orfane dei genitori uccisi a causa di un suo arresto. La storia di Leo si intreccia con un nemico che viene dal passato, da una donna che gli chiederà di riportarle il marito Lazar, che lui stesso aveva arrestato. Così Leo affronterà l’inferno nel quale aveva mandato tanti sospettati, arrestati e processati con accusa costruite ad arte, il gulag, mettendolo di fronte ai loro occhi e alla loro sete di vendetta. Il conflitto di un uomo, della sua famiglia e di un intero stato sono tra gli ingredienti migliori di questo romanzo, che non smette di stupire e di attrarre come un magnete di carta e inchiostro. Tra spystory, thriller e romanzo di avventura, Tom Rob Smith si destreggia bene con colpi di scena ben congegnati e scene ad alto livello adrenalinico, senza tralasciare l’aspetto storico, fondamentale nel racconto di un’Unione Sovietica che sta cambiando. Leo deve difendere se stesso, la sua famiglia e quel che resta delle sue speranze di giustizia. Forse quello presentato da Tom Rob Smith è l’eroe perfetto, anzi imperfetto. Quello in cui è facile identificarsi. Un eroe con una storia difficile e un futuro non scritto, con difetti e pregi che a volte nemmeno lui conosce. In fondo Leo è una persona che scopre se stessa, ed è quello che maggiormente cattura nella lettura di questo libro che consiglio caldamente, magari abbinato al capitolo precedente “Bambino 44”.

Recensione “Oro” di Emme Stefani

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Il disco “Oro” di Emme Stefani è molto orecchiabile, abile miscela di pezzi tra elettronica e melodie attraenti. “L’unica semplice cosa che voglio” è una canzone dinamica che sembra sfociare in un hip-hop interessante che ricorda quello proposto dai primi “Sottotono”, pur mantenendosi nei canoni del pop contemporaneo adattissimo al mercato radiofonico. “Mondi” è un pezzo che coccola e rilassa, con un testo semplice e una musicalità che può affascinare. “Il campo di camomilla” è più lenta delle altre due tracce, ma racchiude i principi essenziali della musica moderna italiana. Le canzoni proposte regalano atmosfere piacevoli e che come luce soffusa sanno creare un ambiente fresco e scenografico allo stesso tempo. E’ indubbiamente musica giovane, che può toccare le corde di un pubblico più giovane, ma allo stesso tempo uscire dalle casse dell’automobile di uno più adulto, rilassando magari dallo stress del traffico. Le canzoni sono senza dubbio belle da ascoltare e rimangono in mente. E’ bello immaginare anche lo sviluppo delle capacità di questi artisti, poiché migliorando le basi, distanziandosi dall’elettronica, potrebbero senza dubbio regalare altre bellissime canzoni, magari con assoli suonati e ritmi meno chiusi nei binari della musicalità elettronica. Questo è solo un pensiero ovviamente, la musica è musica e come tale deve regalare emozioni e queste canzoni hanno le carte in regola per farlo. Attendiamo i prossimi lavori.

In collaborazione con causaedeffetto.it

Recensione romanzo “Io uccido” di Giorgio Faletti

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Molte recensioni di questo libro premettono ciò che Giorgio Faletti è stato, io non lo farò. “Io uccido” è un romanzo d’esordio e che racconta senza ombra di dubbio una bella storia, e non è poco, in cui ci si può affezionare ai personaggi, come al protagonista Frank Ottobre con il suo passato burrascoso, al commissario Hulot e alle vittime, già, proprio a loro. Perché questa storia parla di omicidi efferati e particolari, firmati da una mente malata. Da un killer. E’ una corsa contro il tempo, veloce, alla ricerca delle tracce lasciate da un assassino non convenzionale. Tutto inizia con una telefonata in diretta alla trasmissione di successo di Radio Montecarlo “Voice”, condotta da Jean-Loup Verdier, e con quella voce che appare inquietante sin dalle prime scene che sussurra “io, uccido”. La trama è ben costruita e i colpi di scena ottimamente orchestrati. L’autore si sofferma molto sui particolari, ricostruendo gli ambienti minuziosamente, da un lato è un pregio, dall’altro rallenta un po’ la narrazione. In ogni caso le scene scivolano via fluide, verso un finale rocambolesco e pieno di sorprese. Come ogni storia che si rispetti, non possono mancare i sentimenti, la trasformazione di uomo, che alla fine di questo romanzo, appare come ritrovato e parlo del protagonista, l’eroe, Frank Ottobre. Si tratta di un thriller da leggere, piacevole e dinamico. Un ottimo esordio di questo autore, con una sceneggiature che ben si presterebbe alla realizzazione di una pellicola cinematografica.