Un romanzo distopico, che racconta un mondo che sembra lontano e una storia che pare non appartenerci, ma è proprio nelle nostre paure e nei timori che raggiunge una forma e una dimensione reale, ambientato in una #Torino che inquieta.
Due parole sul romanzo “La ragazza del collegio” di Alessia Gazzola. Ok. L’Allieva è una serie che ha riscosso e riscuote un grande successo. Vien sa sé che è un peccato non portare avanti una saga come quella. Però, arriva un momento in cui le storie iniziano ad apparire spente e senza più quel brio che le caratterizzava. E questo momento credo sia arrivato. Ben inteso, il romanzo è scritto bene e si legge piacevolmente, ma a questi livelli non può e non deve essere sufficiente. I nuovi personaggi non emergono, il finale è sbrigativo, sia per quanto riguarda l’indagine, sia sulla trama principale che riguarda i protagonisti principali, Alice e Claudio. Molta confusione. Spiace, ma questo romanzo non rimarrá tra i miei preferiti.
#DontLookUp Se ne sta parlando molto, quindi perché non darci un’occhiata? Certo, se questa è davvero una metafora per parlare delle catastrofi imminenti e della mancanza totale di attenzione, nonché della predominanza degli interessi economici su quelli anche solo logici legati alla sopravvivenza della specie, siamo messi male. Non perché il film, in sé, sia male. Anzi. È ironico, metaforico e decisamente simbolico, ma arriva tardi perché possa sensibilizzare qualcuno. Ormai è difficile capire cosa sia commedia e cosa sia realtà, nella comunicazione e nella politica, perché tutti siamo fin troppo confusi. In questo la trama coglie nel segno, raccontando un mondo vittima della sua indifferenza, della smania di protagonismo dell’essere umano, che ha perso completamente contezza della sua vulnerabilità. Un modo come un altro per esorcizzare la società moderna e per riflettere, forse. Insomma, trovo poco giustificato il grande successo, poiché non l’ho trovato particolarmente innovativo, ma ho apprezzato il tentativo. Tutto sommato, da guardare.
Io l’ho trovato triste. La narrazione scava molto nell’animo dei protagonisti, al punto da diventare una metafora del mondo, di come la vita possa portare una persona a fare scelte disperate al fine di riscattare la propria identità e la propria storia. A scommettere tutto, compresa la propria vita. Il punto è proprio questo, la vera protagonista della storia sembra proprio essere la disperazione. Non si intravedere una vera e propria forma di riscatto da parte dei personaggi, in qualche modo sembrano tutti perdenti, incapaci di riprendersi davvero la propria vita. In questo modo diventano ostaggio di un gioco perverso e perfido, che li spinge ben oltre i limiti della civiltà, perché la vera sfida è sopravvivere. La metafora copre la differenza tra il mondo ricco e la povertà più assoluta, tra la disperazione e la perversione, in un vortice che oltrepassa l’intrattenimento, per arrivare alla voglia di prendere le distanze. Ok, anche in questo caso si tende a guardare questa serie più per moda che per volontà, però dovremmo sforzarci di leggerci il messaggio che vuole dare, perché non è solo una serie per intrattenere e va ben oltre le scene sensazionalistiche più conosciute. L’obiettivo, infatti non sembra quello di intrattenere, fa di far provare quella forma strana di tristezza. E in questo raggiunge bene il risultato.
Due parole sul finale de #lacasadicarta,le diciamo? Ma sì.Come avevo già scritto, si tratta più che altro di un fumetto. Nulla di verosimile, ma questo non è necessariamente un problema.Per quanto mi avesse lasciato molto basito la prima parte della quinta serie, devo ricredermi. Il finale mi ha emozionato. D’altro canto la serie è stata costruita bene, non in modo perfetto come la prima, ma si lascia guardare.I personaggi sono molto intriganti, a partire dai principali, molti dei quali forse non avrebbero dovuto essere sacrificati troppo presto. Ma penso ci siano motivazioni più ampie rispetto a quelle della trama.La storia è abbondante, a tratti eccessiva. Ma è proprio in questo eccesso che la trama prende forza, autoalimentandosi e caricandosi dell’emotivitá delle storie di ogni personaggio. Il fulcro è il professore, ma è una metafora del gruppo, dell’ideale come scopo della propria vita. Dell’unione come locomotiva delle proprie azioni e specchio del futuro. In qualche modo questa storia é istruttiva, sicuramente un valido intrattenimento.#lacasadepapel
La Casa di Carta è una moda. Probabilmente potrebbe tutto racchiuso in questo concetto. La quinta seria, che altro non è se non il continuo della seconda, che già era una lontana parente della prima, non mi ha convinto. La trama è scadente. Tutto è eccessivo. Le emozioni vengono ripetutamente spiegate e contestualizzare. Troppe scene eccessivamente inverosimi. Al netto di una narrazione che sicuramente funziona e attrae, c’è poco altro. Vedremo il finale, con la speranza che possa quantomeno rialzare la media.
Vi avevo già parlato della prima serie di #24, serie che vede 24 puntate, ognuna delle quali racconta un’ora di una storia che si svolge, appunto, durante un periodo di tempo di 24 ore. Nel raccontarvi la prima serie, vi avevo evidenziato una serie di criticità, come la presenza di alcuni rallentamenti nella narrazione. Nella seconda serie queste criticità non ci sono e la narrazione sfiora la perfezione. Seppur rimanendo una storia con moltissime forzature ed esagerazioni, alcune davvero eccessive, la storia appare scorrevole e gradevole. L’attore principale Kiefer Sutherland si dimostra anche in questo caso molto capace, così come gli altri attori, in questo caso soprattutto Carlos Bernard e Reiko Aylesworth. Meno convincente la recitazione di Dennis Haysbert in un personaggio, quello del Presidente degli Stati Uniti, che non emerge mai abbastanza, soprattutto visto il ruolo rilevante che ricopre. Nel complesso la serie è veloce, intrigante e toglie il fiato nel rincorrersi di colpi di scena. #serietv
La prima serie tv #24 è datata 2001 e per tanti versi si vede molto quanto il mondo, almeno dal punto di vista tecnologico, sia cambiato. Il format attrae molto per la narrazione, ancora molto attuale. Ogni puntata racconta ciò che avviene in un’ora, l’intera serie si svolge pertanto in 24 ore. Il protagonista è Jack Bauer, interpretato da Kiefer Sutherland, che ho molto apprezzato in una serie tv molto più recente: Designated Survivor. La storia è molto intricata e a causa della struttura complessa si ritrova in diversi punti, inevitabilmente, a rallentare. Il punto di forza della narrazione presenta in questi ambiti qualche elemento di criticità. Bisogna anche considerare che dal 2001 a oggi anche la narrazione in serie come questa è molto cambiata, oggi verrebbe sicuramente raccontata in modo diverso, tuttavia la serie è gradevole e coinvolgente, nonostante le esagerazioni e le forzature necessarie per rendere più solida la struttura. Essendoci ben 9 serie, sono curioso di sapere come questi aspetti siano stati gestiti con lo sviluppo delle diverse tecnologie. Ma sono fiducioso.
Una felicità semplice è un romanzo che racconta una storia d’amore diversa, il cambiamento di una donna, che però non riesce a farlo mai davvero, perché quell’amore è ancora lì, accanto a lei, anche se, in realtà, non potrà più tornare. È la storia di un uomo che si innamora proprio di quella donna, di quella figura che sembra essersi persa dentro se stessa e in un amore dal quale non vuole liberarsi. È la storia delle scelte, di quello che ci possono portare a diventare. O che ci possono far perdere per sempre. Una storia di rinascita, nonostante tutto. Una storia d’amore, perché l’amore è tante cose. Tutte quelle che ci rendono ciò che siamo.
Ci ho messo molto a finire di leggere #Spillover di David Quammen. Scritto bene, scorrevole, ricco di informazioni, ma mi ci è voluto più tempo per metabilizzarlo e rendermi conto che sia stato scritto anni prima della diffusione del Covid-19. La narrazione mostra quanto in realtà fosse probabile che un fenomeno pandemico avvenisse da qualche parte, prima o poi. Narra di quanto sia longeva la ricerca e la lotta ai virus. Di quanto siamo stati anche fortunati che una pandemia non ci abbia colpiti anche prima. Di cosa sia stato e abbia rappresentato lo sviluppo dell’Hiv. Di quanto i nostri comportamenti in tema di ambiente e mobilitá abbiano influenzato tutto. E di quanto ci sia stato da sempre forse l’arroganza di poter controllare la natura, inconsapevoli che eravamo disarmati. I ricercatori, però, lo sapevano bene quanto un virus potesse essere in grado di mettere in ginocchio il mondo. Così come lo sapevano i grandi centri di ricerca. La verità è che si sa davvero molto poco. La verità è che parlano davvero in troppi, a cui consiglio di leggere questo libro. #Spillover @adelphiedizioni