Recensione album “Believe it” di Ila & The Happy Trees

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Melodie frizzanti e una musicalità avvolgente sono le caratteristiche principali delle canzoni di Ila & The Happy Trees. Un disco ricco di pezzi che conquistano sin dal primo ascolto. “Believe it” è una ballata raffinata ed elegante, accompagnata da melodia semplice e armoniosa e guidata da una una voce che ammalia. “TU generico” è brano che racconta l’ipocrisia, gli occhi nascosti dietro un volto che finge un sorriso. Una guerra quotidiana, che un sorriso può placare. Un invito a sognare ancora. Il brano “Sun” possiede un sound che riecheggia tra i violini e una voce sognante, intensa, profonda. Che emoziona. Una leggera malinconia si muove nell’aria, contrastata da un vento che rinasce, che fa guardare oltre la siepe. Un suono che racconta un mondo nuovo. La ballata “Change the worlds” è soffusa, trasparente. Piacevole. “O cè” è un brano cantato in un dialetto, che poi è una lingua. Canzone comunicativa, dolce e sussurrata.“Into a Change” ha sound internazione, nella sua leggerezza, nella sua affascinante melodia. “Quando ero bambino” parla di ricordi, immagini,  e speranze perse tra parole calde ed evocative, che in fondo ai sogni, non si perdono. “Bolla” racconta emozioni che si perdono tra gli accordi di una canzone fresca e viva. “The meaning of life” è intensa e avvolgente, piena di sentimenti che vibrano come le corde di chitarra. “La lingua” è una  canzone melodiosa, che incanta a ogni nota. “Wake me up” è lenta, appassionante, musicalmente incantevole. “Drop water ocean” è un pezzo soave, che chiude con cori e splendida musica strumentale. L’album “Believe it” è intenso, bello da ascoltare. Raffinato ed elegante, ottimamente suonato e con voce armoniosa e un sound internazionale. Un bel disco.

Recensione “The Quite Riot” degli Ordem

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L’album “The Quite Riot” degli Ordem accompagna l’ascoltatore verso sonorità d’altri tempi sin dalla prima canzone “No Life”, al rock melodico con retrogusto malinconico portato al successo da gruppi storici come Gun’s Roses e U2. Proseguendo nell’ascolto c’è “The scent of lights”, una ballata ricca di melodia, rock semplice e puro, senza troppi fronzoli. Il brano “The quite riot” è veloce, con bellissimi virtuosismi di chitarra elettrica, costruiti sulla base melodica ben studiata. “Essential” sembra essere l’aggettivo perfetto del rock degli Ordem: essenziale. Musica che si fa ascoltare e che affascina. L’intro di “Instant’s mind” ricorda il suono dei Dream Theatre, anche nel suo quasi malinconico incedere, in cui la voce rompe il giro di accordi e ha inizio una canzone ricca di atmosfera. “Surrenders to rise” accompagna come durante un viaggio in auto, lungo strade perse in aperta campagna, mentre lontano si intravede un sapore nuovo, dimenticato. “Brand new song” è un brano che si immerge in un’atmosfera energica, con un ritmo che trascina, mentre “Shine on”, sembra rallentare il corso dell’intero album, come volesse far riflettere. Il tempo è più lento, la voce più soffice. Riflessiva. “Everything” riporta con un rif ben studiato a un pezzo grintoso e graffiante. “Mayf” e “Edges” rappresentano un rock, forse più classico, ma sempre accattivante, come d’altro canto tutti i pezzi del disco. “Us” si apre con un rif intimo, suadente ed è così che nasce una canzone quasi sussurrata, che raccoglie sentimenti, emozioni e un profumo che non smette mai un attimo di essere rock. L’album si chiude con “Waterlily”, che mantiene lo stile affascinante degli Ordem, richiami anche in questo caso al rock melodico e passionale che sembrava svanito, ma che questo gruppo ripresenta e lo fa molto bene, riuscendo a mantenere un cuore rock che pulsa, su melodie e sonorità moderne e rivisitate. Un salto nel tempo, e un ritorno alla realtà, malinconia ed energia, rabbia e passione, i punti cardine della musica. Del perdersi e, alla fine del viaggio, ritrovarsi, magari sorridendo di fronte a un tramonto, alla fine di una lunga giornata, di musica.

Recensione “The Quite Riot” degli Ordem

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L’album “The Quite Riot” degli Ordem accompagna l’ascoltatore verso sonorità d’altri tempi sin dalla prima canzone “No Life”, al rock melodico con retrogusto malinconico portato al successo da gruppi storici come Gun’s Roses e U2. Proseguendo nell’ascolto c’è “The scent of lights”, una ballata ricca di melodia, rock semplice e puro, senza troppi fronzoli. Il brano “The quite riot” è veloce, con bellissimi virtuosismi di chitarra elettrica, costruiti sulla base melodica ben studiata. “Essential” sembra essere l’aggettivo perfetto del rock degli Ordem: essenziale. Musica che si fa ascoltare e che affascina. L’intro di “Instant’s mind” ricorda il suono dei Dream Theatre, anche nel suo quasi malinconico incedere, in cui la voce rompe il giro di accordi e ha inizio una canzone ricca di atmosfera. “Surrenders to rise” accompagna come durante un viaggio in auto, lungo strade perse in aperta campagna, mentre lontano si intravede un sapore nuovo, dimenticato. “Brand new song” è un brano che si immerge in un’atmosfera energica, con un ritmo che trascina, mentre “Shine on”, sembra rallentare il corso dell’intero album, come volesse far riflettere. Il tempo è più lento, la voce più soffice. Riflessiva. “Everything” riporta con un rif ben studiato a un pezzo grintoso e graffiante. “Mayf” e “Edges” rappresentano un rock, forse più classico, ma sempre accattivante, come d’altro canto tutti i pezzi del disco. “Us” si apre con un rif intimo, suadente ed è così che nasce una canzone quasi sussurrata, che raccoglie sentimenti, emozioni e un profumo che non smette mai un attimo di essere rock. L’album si chiude con “Waterlily”, che mantiene lo stile affascinante degli Ordem, richiami anche in questo caso al rock melodico e passionale che sembrava svanito, ma che questo gruppo ripresenta e lo fa molto bene, riuscendo a mantenere un cuore rock che pulsa, su melodie e sonorità moderne e rivisitate. Un salto nel tempo, e un ritorno alla realtà, malinconia ed energia, rabbia e passione, i punti cardine della musica. Del perdersi e, alla fine del viaggio, ritrovarsi, magari sorridendo di fronte a un tramonto, alla fine di una lunga giornata, di musica.

Recensione di “Adieu Shangri-la” di Ugo Mazzei

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L’album “Adieu Shangri-la” è ricco di sensazioni e atmosfere piacevoli, di pezzi intensi e profondi e musiche avvolgenti.

Il brano “Fatemi respirare” richiama influenze alla De Gregori, una musica che si perde tra poesia e rock melodico, con un testo che è a tratti provocatorio, certamente intenso. “Sexyroad” sembra ricordare le ballate di De Andrè e allo stesso tempo incantare con atmosfere americane, tra asfalto, polvere e pensieri che rincorrono una sensazione di confusione, dentro. E’ la ricerca di se stessi, delle cose importanti lasciate alle spalle. “C’era” è una ballata impegnata, una storia che incanta e si fa strada dentro i ricordi. Un racconto al ritmo di un tempo lontano, eppure ancora troppo vicino. “Canzone per Chico” è una canzone lenta, quasi inesorabile, come il viaggio in treno, nel tempo, oltre il tempo. Fermarsi a una stazione e guardare il cartelloni degli orari, ma non ci sono scritte, solo la certezza di un altro viaggio. “Oh Susanna” racconta invece un rock sanguigno, con leggere contaminazioni country, una storia appassionata e intensa, con immagini e personaggi degni della narrativa di viaggio. Il brano “Armaggeddon” possiede un bellissimo sound, una ballata brillante e con un ottimo arrangiamento. Un viaggio, una storia. “Oggi” è un pezzo intimo e introspettivo, che parla d’amore, di emozioni e scatta istantanee di istanti rubati e di parole lasciate a metà, di sguardi che rimangono indelebili, nonostante il tempo e le cose che cambiano. Il tema di “Stracci inutili” è dimenticare, lasciare tutto alle spalle. Ricominciare. E’ un pezzo che racconta come rialzarsi, cercando la forza dentro. “Cerchio di fuoco” racconta una fuga, dai o nei ricordi, come in un gioco, aspettando che qualcuno faccia la prima mossa. E’ la storia di un’attesa, forse, di un’eternità. “Adieu Shangri-la” è la canzone che regala il titolo all’album. Come una canzone d’amore, come un addio leggero, senza dolore. Come la malinconia sulle note di diamante e nuvole. Un’estasi senza tempo. Una sfumatura che costruisce un colore, una melodia che vibra al suono dei ricordi.

L’album di Ugo Mazzei è bello da ascoltare, ha richiami a molta della musica leggera italiana, soprattutto a quella cantautoriale. Da De Gregori a De Andrè, passando le Guccini, i testi sono raffinati e ben costruiti, la musicalità e gli arrangiamenti sono molto curati. Un bel disco.

Recensione “L’eretico” di Carlo A. Martigli

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Pico della Mirandola è morto prima di portare a termine la missione di unificare le tre grandi religioni. Mentre Firenze è scossa dalla peste e dai sermoni duri di Savonarola, a Roma la famiglia Borgia cerca, tra lussi e perversioni, di consolidare il potere del papato, accettando l’alleanza con gli odiati Medici, a loro volta pronti a tornare a capo di Firenze. Nel mezzo di questa guerra c’è un uomo che ha ereditato la missione di Pico della Mirandola, è Ferruccio de Mola, che con compagna Leonora, lotterà per difendere un segreto, una donna e un libro misterioso, che contiene una storia capace di cambiare il destino della chiesa di Roma e di tutto il mondo. Una storia intrigante, misteriosa, che ha origini lontane e che l’anziano monaco Ada Ta e la sua discepola Gua Li sveleranno a Ferruccio. L’eretico è un romanzo che va oltre il thriller, documentato dal punto di vista storico e curato da quello narrativo. Una storia ricca di spunti e riflessioni che trascina il lettore attraverso intrighi papali, inganni e inseguimenti. Riesce a raccontare uno dei segreti e dei misteri storici più importanti, svelando un enigma e allo stesso tempo parlando all’anima e al cuore. La tecnica e la potenza della documentazione rendono questo libro un’opera importante e una scoperta narrativa. Degno seguito di “999 – L’ultimo custode”, “L’eretico” estende e approfondisce l’idea dell’unificazione delle tre grandi religioni. Carlo A. Martigli è un autore intenso e raffinato, che racconta le passioni, i tradimenti e le perversioni dei Borgia e dei Medici e l’amore incantato di Ferruccio e Leonora e ci permette di fare luce su molti aspetti poco conosciuti della storia. Insegna e intrattiene in un vortice che conduce alla scoperta di uno dei segreti più importanti dell’uomo. Un romanzo da non perdere.

Recensione “Kapytalysty Vyrtualy” di RosyByndy

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Il tema profondo su basi trip pop è senza dubbio qualcosa di originale. Sin dal primo pezzo vengono affrontati argomenti complessi. In “Chiudete bene la porta” si racconta dell’equilibrio tra le tre grandi religioni e l’ipocrisia umana. “Due sentieri” è una ballata in cui spicca il duetto con Tiziana Rivale, in un viaggio interiore e intimo. “Dogma” si muove su una base elettronica ipnotica a evidenziare le debolezze dell’uomo e le sue fragilità senza cura possibile. “Io sono la vittima” è un pezzo la cui atmosfera attrae e invade in una forma rude quanto ancestrale. “Chinacrack” è una ritmica evoluzione con uno stile particolare, tra funk ed elettro-pop. Il testo è misterioso ed ermetico. “Parole che sfuggono alla voce” unisce parole criptate su melodia lenta e inesorabile, mistica. “Non votare per me” è un’esortazione, è un’idea, un vortice di pensieri che si inabissano. “Giù dal cielo” è come una messa lanciata nell’aria, un’evocazione di un male oscuro, che uccide, che logora le anime. E’ Guerra. “Il ventre dell’anima” è un brano mistico, un sorso d’anima e incanto metafisico. “Nabouf” porta avanti l’idea principale del disco, in un quadro immerso in atmosfere misteriose e sussurrate, come un loop che si allontana per tornare, ossessivamente. “Non mi svegliate più” colpisce per il ritornello orecchiabile e intenso, come un grido antico che si erge sulle musiche elettroniche e moderne. “Mengele’s nightmare” ha un ritmo ossessivo e incalzante, suoni lontani riecheggiano tra urla infernali. Un incubo nel suono e nell’anima. “Vorrei parlarti di me” è un verso poetico, recitato con ritmo struggente. “Writing Cleopatra” è il pezzo strumentale che chiude il disco. L’album “Kapytalysty vyrtualy” è particolare, con sonorità elettroniche e ipnotiche, i testi sono mistici ed ermetici. La miscela di queste caratteristiche genera un sound ossessivo e martellante, che riempie l’aria di suoni e parole, che taglia a metà la calma e riesce a far riflettere su temi complessi. Non si può dire sia un disco commerciale, anzi, è di nicchia e di difficile comprensione, ma ha proprio in questo la sua particolarità. Atmosfere e temi che ricordano le opere di Battiato, suoni che riportano a melodia moderne, dal trip pop al drum’n’bass. Originale.

Recensione “Cerco Ossigeno” di Willie DBZ

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Willie DBZ mastica il rap da una vita. E si sente. Il sound proposto da questo artista ha radici antiche. Lo si capisce sin dallo stile raffinato dell’intro del disco che ci accompagna al primo pezzo “Cerco Ossigeno”. Lo stile hip hop sembra richiamare l’anima che ha generato il suono dei primi OTR e Sottotono. I testi hanno una forte matrice sociale su melodie orecchiabili e beat ben costruiti. “Siamo messi male” è una canzone che fa il punto sul mondo della televisione e sui relativi contenuti scialbi quanto finti. ”Cloni” è un amaro attacco a un sistema robotizzato, costruito per controllare l’uomo, la cui natura è quella di vendersi, di sporcarsi per restare a galla. Il brano “Abbassa la cresta” è ricco di tecnicismi e istinto. Sapore antico di  denuncia sociale miscelata alla voglia di emergere. Interessanti i pezzi strumentali “Relax dopo la Jam”, “Attimo di lucidità” e “Pronti per un nuovo inizio”. “Amarcord” parla di storie di vita nella musica Hip Hop. Uno sfogo amaro e duro allo stesso tempo, da cui però trasuda la voglia continuare a lottare. L’album prosegue conservando il sound che è rimasto nell’anima di chi ha amato l’esordio dell’Hip Hop in italiano. “Limiti” racconta delle leggi  e del loro contrario, della trasgressione necessaria per ribellarsi. La ricerca della vera anima, nella musica, nella vita. Nel contrasto. “Indecisi della domenica” è uno scontro con la morale comune, con l’indecisione e con il quieto vivere. La scelta sembra essere l’unico modo per eludere questa assurda forma di auto-sorveglianza. “Punto di massimo” racchiude la rabbia e l’inevitabile reazione. Dura presa di posizione sul come affrontare la vita. E’ Lotta. “14 anni dopo – Toscana Bomberz” è una raffica featuring che si intrecciano. Rapper toscani con i loro versi che si scagliano sul beat. “Trentasette” è l’immagine di una storia tra Hip Hop, rabbia e vita. Una sfida raccontata a suon di versi. L’Hip Hop di Willie DBZ è raffinato e sanguigno allo stesso tempo, è storia e innovazione. L’anima si sente. Scorre sangue Hip Hop nelle vene. C’è rabbia che resiste a tutto, alla crisi, alla rassegnazione. Alla storia. In questo disco ci sono tutti gli ingredienti necessari che chi ama l’Hip Hop vuole sentire. E’ storia del Rap e della sua nuova origine.

Recensione del disco “Non sono mai stato qui” e intervista all’autore Davide Geddo

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Davide Geddo è un cantautore che sa toccare le corde giuste, l’avevo capito sin da quando ho sentito per la prima volta “Genova”, ma in questo disco si è superato. E con la complicità di un amore finito ha reso ogni nota un fiume in piena e allo stesso tempo un rivolo leggero in grado di scavarsi una strada in una roccia. La prima canzone dell’album “Non sono mai stato qui” è “Venezia”, struggente, con parole appassionate e forti dedicate a una donna ancora amata, che è fuggita via, un giorno come un altro. Descrive un cambiamento, una trasformazione interiore che, tuttavia, non riesce a far dimenticare. La durezza d’un amore che resta lì, a osservare. Come quando ci si guarda allo specchio e ci si scopre diversi, più tristi forse, ma più forti. “Dicono che io” è una canzone introspettiva, che analizza, studia e alla fine parla al cuore della donna che ti ha infranto il cuore, a tratti con durezza, a tratto con delicatezza. Un pezzo che emoziona, racconta, guarda l’amore da un nuovo punto di vista. “Angela e il cinema” è una ballata dall’animo jazz, blues, amara e dolce, con suoni che si intrecciano a parole che rincorrono in un racconto passionale con sfumature carnali. Le contaminazioni della musica popolare si uniscono ai suoni moderni e passionali di chitarra, violino e batteria, il tutto tra rustico e raffinato.  “Tristano” è un valzer popolare, tra la vita che ubriaca fino all’alba. Parole brille e sporche di vino e canti a squarciagola. Una sagra di musica e colori, suoni e canti popolari su melodie avvolgenti. “Stare bene” è una ballata, una passeggiata alla ricerca del senso più profondo di se stessi. Un modo colorato per ritrovare la strada migliore. “Il post amore” è un pezzo travolgente, divertente ed energetico. Un duetto fantastico con la bravissima Chiara Ragnini, che ricama e costruisce trame melodiche funky con la sua voce pura, dolce ed elegante. Una canzone che riesce a dare coraggio. E non è poco. “Equilibrio” è una ballata intima e coinvolgente, emoziona e incanta, con intense parole sussurrate. Soffici come neve. “Dall’amore (interventi di modifica alla viabilità interiore)”, è un pezzo creato come una metafora a suon di musica appassionata e indiavolata. Racconta divagazioni sull’amore, sulla vita, su se stessi, fino all’anima. “La campionessa mondiale di sollevamento pesi” è un dolce richiamo, come persi tra ricordi, lontani, ma che vivono ancora dentro, fanno ombra ai sogni e allo stesso tempo compagnia. In “Piccolina” Geddo sembra richiamare Fred Buscaglione, ravvivandone il sound e rendendolo ancora più dinamico, attuale. Moderno. “Sole rotto” è amara e sognante. E’ un pensiero soffuso, soffice e dolce, che oltrepassa il cielo, la distanza e l’amore svanito.

“Un pugno rotto è una canzone” è un piccolo gioiello. E’ una canzone fragile, delicata e intensa. Non si riesce a smettere di ascoltarla, soprattutto quando ascoltandola ci si sente proprio così, confusi, disarmati. Vittime di quel suono più oscuro. “Nancy” è un pezzo tagliente, ricco di ricordi, passioni che la vita costringe a celare in fondo all’anima. Svela le immagini raccolte come su un album da non riaprire. Un album che si vorrebbe bruciare, senza averne il coraggio. di farlo. “L’astronave di Provincia” è malinconia pura, un amore delicato, che entra senza far rumore. E’ un ricordo lieve, abbandonato tra le pieghe del letto. Un bacio che non si potrà dimenticare, mai.

L’album si conclude la canzone che da il titolo all’album. “Non sono mai stato qui” ha un suono che ipnotizza, che lascia un gusto strano in bocca, che fa sentire come soli di fronti al mare in tempesta, col freddo che entra nelle ossa. Poche luci intorno. E dentro una consapevolezza, ciò che amavi non c’è più. Una lucida solitudine che riesce quasi a far compagnia, diventa parte di te. Ti completa. E mentre il vento continua a soffiare, decidere di tornare a casa. E, forse,di dimenticare.

Un disco da ascoltare e riascoltare, che accompagna, emoziona, sussurra grida. Ubriaca. Un sapore a volte amaro, ma che rimane lì, fa riflettere, sognare e ricordare. I ricordi sono la trama portante dell’intero disco. Ricordi che nascondo lacrime per farsi forza. Per rialzarsi, e non smettere mai di sorridere.

Abbiamo posto alcune domande a Davide:

Le canzoni del nuovo disco sono ispirate a luoghi immaginari, cosa sono per te questi “ non luoghi”?

La musica è una potente macchina del tempo e dello spazio. Consente di rivivere sensazioni perdute o immaginare storie che non si sono potute realizzare. In essa il tempo vola e altera le sue leggi. La canzone non ha la bellezza tangibile di un quadro o di una scultura ma, pur essendo un’arte minore, è l’unico varco temporale che ci permette con la stessa facilità di essere profondamente noi stessi o di immaginarci nei panni di persone completamente diverse. In “Non sono mai stato qui” è mia intenzione sottolineare l’ambigua essenza della forma “canzone” dichiarandone l’assoluta libertà e indipendenza dalla presenza e dall’esperienza che condiziona il quotidiano.

Nell’album c’è una forte componente emotiva e sentimentale, quanto c’è di autobiografico nei pezzi?

Non credo alla musica come esibizione e divismo; credo alla musica come linguaggio, come espressione e come modo di toccarsi. Credo che non si tratti di essere autobiografico in ciò che racconti ma di esserlo in come racconti. Non sono quasi mai al centro delle mie canzoni; mi piace esserne collaterale, magari attore non protagonista. Mi piace essere nei dettagli.

Cosa lega le canzoni Genova e Venezia?

Sono due concetti opposti che finiscono per essere speculari. Venezia è la storia di tutto ciò che non è accaduto tra due persone che si ritrovano dopo un qualcosa che non c’è stato; la canzone inizia con un elenco di situazioni che non si sono realizzate e narra la storia di un viaggio che non si è compiuto. Genova, al contrario, rappresenta un modo di sentire e il forte senso di riscatto che trovo nella musica. In questa logica la bellezza misteriosa e contorta di Genova e quella sognante e unica di Venezia finiscono per specchiarsi come una realtà e il suo sogno.

Le tue canzoni sono come delle polaroid immagini di momenti, quasi scene di un film. Quale di queste fotografie porteresti sempre con te?

La dimensione cinematografica è quella più adatta alle mie canzoni; mi piace accompagnare visivamente dentro una storia, dare un carattere ai personaggi, mi piace romanzare e abbozzare paesaggi. Mi piace essere il regista delle canzoni. In altri casi, e mi viene in mente “stare bene”, il riferimento alla polaroid che tu hai colto mi pare appropriata. Ho i miei tempi nello scrivere; a volte non sono per niente brevi. Ma una volta che sono finiti i brani fanno parte di me e sono sempre con e dentro di me. Non ho scarti; solo idee su cui ritornare.

Quanto conta il mare nelle tue canzoni?

Noi, fortunati, che viviamo il mare abbiamo un doppio orizzonte che si fonde in lontananza. Non si può prescindere da questo mistero che induce umiltà, rispetto e riflessività. Inoltre ho un naturale stupore per tutti quegli elementi naturali che sanno “incantare” lo sguardo come anche il fuoco o le nuvole.

Quali sono gli artisti che ti hanno aiutato a esprimere la tua musicalità?

Per me suonare è quasi l’atto finale e decisivo ma non potrei sentirmi musicista senza essere ascoltatore e appassionato di musica. Lo star system identifica la musica come un mezzo di valorizzazione del talento o, purtroppo spesso, anche solo di contorno ad esso. Ciò ha professionalizzato la canzone ma ha tolto spontaneità, ricerca e spirito di appartenenza; la musica ha perso molto appeal rispetto, per esempio, al computer e alla tv; mondi di cui è diventata componente, perdendo in autonomia e forza. In questo senso collaborare è per me parte stessa dell’essere autore di canzoni. Ritengo di sentirmi dalla stessa parte di chi rivendica per la musica un’autorità e un’autorevolezza che stimoli l’ascolto, aspetto per me sempre prevalente. Da questa parte della barricata mi sento in sintonia con artisti di cui apprezzo l’approccio con la musica e le persone come Zibba, Sergio Pennavaria, Zazza, Michele Savino o Chiara Ragnini, ma la lista per fortuna è lunga e l’unione fa la forza. Di fatto infine è stato molto importante l’incontro con Rossano Villa di Hilary Studio che mi dato sicurezza e confidenza con lo studio di registrazione.

Alcuni dei tuoi pezzi sono ritmati, quasi indiavolati; altri sono più intimi e sussurrati. Quale delle due dimensioni senti più tua?

Vivo la musica come una casa. Ogni tanto sento il bisogno di fare festa, invitare tutti gli amici e passare la serata in allegria; altre volte ho bisogno di rinchiudermi nella mia stanza e parlare un po’ con me stesso. Sento mie entrambe le dimensioni e mi sento a mio agio nello sviluppare entrambe le dinamiche. Non credo che sia il binomio gioia- tristezza a creare un brano che sia degno di essere ascoltato ma so che servono spirito di osservazione, lucidità e feroce autocritica.

Come ti vedi tra dieci anni?

Un po’ cambiato.

Recensione del film “Lincoln”

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“Lincoln” non è un semplice film storico, ma un vortice che mostra le contraddizioni della politica in una veste nuova e terribilmente attuale. Steven Spielberg, regista della pellicola, mette in scena il presidente Abramo Lincoln, approfondendo le sue caratteristiche, da quelle pubbliche a quelle più intime e profonde. L’interpretazione dell’attore Daniel Day-Lewis è impeccabile e attrae con la recitazione delle storie raccontate dal presidente, con i gesti e i silenzi del Presidente, guidando così gli spettatori nelle sue scelte difficili scelte politiche. D’altro canto dal punto vista storico il protagonista è l’uomo che ha guidato gli Stati Uniti d’America durante le rivolte degli schiavi e che ha fatto la storia e per molti versi è la storia stessa. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America ingaggia un vero e proprio duello con i confederati per far approvare il terzo emendamento, quello che abolirà una volta per tutte la schiavitù nei neri in America. Una corsa contro il tempo e contro le fazioni che non volevano che l’emendamento passasse. Una storia commovente e forte, profonda e intensa, che sfrutta gli eventi storici e la complessità del protagonista di questa storia e della storia in generale. Regia, luci e interpretazioni degli attori sono ingredienti ottimi per un film da vedere, che fa riflettere e sperare. Gli accordi, la filosofia di quello che per molti è stato un tiranno e per altri un amato statista, rendono questo film bello e appassionante. Forse difficile da comprendere, poiché ci vuole molto impegno per entrare nell’ottica giusta, ma che senza ombra di dubbio si rivela un capolavoro. Un gran bel film.

Recensione del romanzo “Saltatempo” di Stefano Benni

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Saltatempo è un ragazzo, poi un uomo. Una trasformazione del protagonista che corre di pari passo con quella dell’Italia dalle contraddizioni di una nazione appena uscita da una guerra a quelle di un comunismo spesso ambiguo, sino alla nuova politica che sfocia nella corruzione. L’autore è Stefano Benni, che riesce a raccontare le mutazioni di un territorio e insieme di una cultura, che da rurale diventa sempre più cittadina, con tutto ciò che questo comporta. L’avvento dell’arrivismo, del cinismo e contemporaneamente delle prime scoperte, dall’amore alla droga, dal sogno alla morte. Saltatempo può muoversi nel tempo con il suo orobilogio e sapere come le cose andranno a fine, tra figure epiche e metafore ben studiate, il romanzo si sviluppa in maniera sapiente e oculata, raccontando un mondo, più mondi e scavando nella psiche e nelle paure dei protagonisti. E’ un romanzo per sognatori, ma che lascia in fondo anche tanta amarezza. E’ una storia che fa capire quanto l’uomo ha svenduto per raggiungere soldi, successo e un fantomatico progresso, che poi fa perdere il senno, l’anima, e alla fine anche la speranza. Questa però non muore mai davvero, ma rivive, come nelle anime che abitano i boschi, le montagne, come le idee che si rianimano, proprio quanto tutto sembra finito. Alla fine è solo il senso della vita, delle piccole cose, del credere negli ideali senza lasciarsi trasportare. Lo sviluppo di un territorio che diventa metafora della crescita di un uomo, che scopre se stesso anche oltre il male e forse nel male stesso riesce a trovare il senso dei propri desideri. Saltatempo è certamente un romanzo semplice e complesso allo stesso tempo, che mette le basi e le distrugge, che fa sognare e allo stesso tempo morire. Il tutto sembra insegnarci che non bisogna mai smettere di credere nelle cose, nelle idee, nei sogni, nella speranza di un mondo migliore, di una politica corretta. E di tutto quello che questo può provocare, l’eterna guerra tra il bene e il male che purtroppo talvolta si fondono senza riuscire a intravederne i confini. Cosa resta? Il senso più profondo delle cose: la vita.