Recensione album “Applausi a Prescindere” di Stefano Vergani

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L’album “Applausi a Prescindere” di Stefano Vergani è un album che racchiude diverse sonorità che attraversano il jazz e incontrano la musica popolare, per poi giungere a un pop gradevole e orecchiabile. I brani sono particolari e intensi. Il primo pezzo è “Guardare le stelle non è come leggere il giornale”, una ballata leggera e profonda, un viaggio nel tempo con parole che incantano e suoni che avvolgono. Forti richiami alle radici cantautoriali italiane. Un racconto appassionato e piacevole da ascoltare. “Regina” è una ballata che parla al pop, passando per un tenue valzer. Una musicalità dinamica miscelata a una racconto ironico, ma non troppo, sulla gelosia e sull’amore perduto tra le sfumature di una storia che ha il sapore di altri tempi. Eppure così attuale. “Incubo Erotico” regala parole intense e cariche di sensualità, tra ironia e voglia di raccontare pensieri. Un sound che rende il pezzo divertente e intrigante. “Primavera in Brianza” racconta di un periodo strano, alla ricerca di un luogo di ricordi, di pensieri. Di sapori dimenticati, o mai conosciuti. Una metafora del tempo e della sua importanza. L’apprezzare l’attimo. Il momento sconosciuto.“Su tutto quello che non sei” ci sono le immagini di una vita ad attendere il momento, che talvolta è quasi meglio non arrivi mai. “Piccola storia volgare” è una storia surreale, consumata di realtà e di immagini sfumate in una cronaca, appunto, volgare. Quanto verosimile. “La bacerò sul viso” è una favola di musica e istantanee tra musica e sapore del vino. “Dove sei finito” è una ballata semplice e complessa. Incantevole e incantata. Svegliarsi e guardarsi intorno. Percepire qualcosa, di intenso. Un sentimento che svanisce, o si nasconde, per essere cercato ancora. “Un’estate all’ombra” è una storia dissacrante, ricca di metafore e di evocazioni di vita, richiamo all’estate e fuga da quelle stesse immagini. La ricerca di se stessi. La voglia di cercarsi oltre i colori del mare. “Applausi a Prescindere” è un disco che richiama atmosfere di una musicalità pop in tutte le sue sfumature. Un mix di tanti generi. Un ottimo compromesso che mette in cima la voglia di far musica e soprattutto di raccontare un mondo con una chiave di lettura nuova e appassionante. Come un cantastorie dei giorni nostri, che usa una lingua che sembra così lontana, da non farci capire che è ancora la nostra. Un ritrovarsi tra le note e le parole. Una ricerca di un nome che poi è il proprio. Un passato che diventa presente e un momento che non smette di stupire. Una storia lunga un album, carica di passione e musica da ascoltare.

Recensione romanzo “Il Fiume scorre in te” e intervista all’autrice Bianca Cataldi

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Il romanzo di Bianca ricorda le atmosfere oniriche di Murakami, é misterioso e appassionato. Le scene che raccontano la storia di Alessandro sono in alcuni casi dure e intense. Questo approccio narrativo rende la storia verosimile anche oltre la sua natura quasi fantastica. I protagonisti sono ben costruiti, a partire da Dani, Massimo e Alessandro, senza dimenticare i personaggi di secondo piano, ma non meno importanti, come Eleonora. Proprio questa ragazza aprirà gli occhi di Dani, svelando una nuova realtà. Un nuovo punto di vista. “Il fiume scorre in te” é un viaggio che richiama una moderna discesa nell’inferno dantesco, e non é un caso che la figura di Massimo ricordi quella di Virgilio per Dante. Tra le righe di questo romanzo si sente la passione per la letteratura e per la scrittura. Avevamo già scoperto il talento di Bianca con il romanzo “Waiting Room”, e anche in questo romanzo l’idea é affascinante e lo sviluppo della storia, avvolgente. Nel romanzo non mancano riferimenti ai sapori e ai gusti dei luoghi in cui la storia é ambientata, la Puglia. Questo romanzo é un vortice di avvenimenti che portano il lettore a un finale emozionante e appassionante. L’intera storia fa riflettere sui sentimenti, sull’importanza di un amore e della percezione di quelle tracce che spesso ignoriamo, nel bene, e nel male.

Ho posto alcune domande a Bianca. Ecco l’intervista:

Domanda necessaria: quanto c’è di Bianca nella protagonista Dani

Moltissimo. Come credo accada a tutti gli scrittori esordienti, ho letteralmente riversato le mie paure, le mie emozioni e i miei ricordi nel corpo di Dani che, tra l’altro, era anche mia coetanea ai tempi della stesura. Non mi pento di questa scelta perché credo che ognuno di noi debba iniziare a scrivere partendo da ciò che conosce, senza inventare nulla. Certo, l’autobiografismo è da evitare, ma una giusta dose di contaminazione tra sé e il personaggio può andar bene in un romanzo d’esordio

Alessandro e Massimo, due mondi diversi, distanti a volte, meno in altre. Sono un po’ lo specchio delle mentalità maschili?

Sicuramente, e sono effettivamente l’uno l’alter ego dell’altro. Sono complementari, si incastrano alla perfezione come pezzi di un puzzle. Tuttavia non sono “il buono” e “il cattivo” di turno: come spesso accade, nel bianco c’è un po’ di nero e nel nero un po’ di bianco.

Qual è la definizione che daresti del tuo romanzo? In che genere lo collocheresti?

Credo che la definizione più calzante sia quella di Elisabetta Ossimoro, una scrittrice torinese: romanzo di formazione fantatemporale. E’ esattamente questo. Non possiamo parlare di fantasy classico perché, a conti fatti, di fantastico c’è solamente il viaggio nel tempo. Tutto il resto è fortemente reale.

Cos’è, secondo te, l’amore? E quanto si differenza da una cieca dipendenza affettiva?

Quand’ero più giovane credevo che l’amore fosse quel turbinio di emozioni che ti toglie il respiro e ti azzera ogni facoltà razionale. Col tempo ho capito che quella è semplicemente passione. L’amore, quello vero, è ciò che viene dopo, il fuoco stabile dopo la violenta fiamma iniziale. E’ questo ciò che separa l’amore cieco, ossessivo e dannoso, dall’amore sano che porta frutti.

Una domanda che può sembrare stupida, ma la faccio. Nel romanzo ritorna spesso il momento della colazione, cosa rappresenta per te?

La colazione è per me il pasto più importante della giornata, il momento in cui la famiglia si riunisce intorno a una tazza di caffè e la mattinata ha inizio, piena di aspettative e di progetti. E’ la mia personalissima ricetta del buonumore, ed è per questo che ritorna così spesso nel romanzo.

Dal punto di vista simbolico, oltre al perdono, cosa rappresentano le bambole?

Le bambole rappresentano l’innocenza perduta e, ogni volta che la porcellana s’infrange contro un muro, l’atto del perdonare si lega inevitabilmente alla frammentazione di qualcos’altro, di quel mondo intatto e puro che la protagonista custodisce dentro di sé. In altre parole, le bambole rappresentano la graduale corruzione dell’uomo nel momento in cui si spoglia del suo essere bambino per entrare nel mondo degli adulti.

Rispetto alla Bianca che ha scritto “Il fiume scorre in te” e a quella di “Waiting Room”, quanto senti di essere cambiata, dal punto di vista artistico e personale?

Moltissimo. Il mio stile ha subito una radicale trasformazione: in passato scrivevo “tanto”, a lungo, mentre adesso tendo a essere più breve e concisa. Soprattutto mi hanno cambiata le letture: Thackeray e Flaubert, in particolar modo, mi hanno insegnato a non “sbrodolare” parole, a non essere eccessivamente sentimentale, a non cadere nel patetico. Un grande aiuto, inoltre, mi è stato offerto dalle recensioni dei lettori, perché sono loro il grande specchio col quale ogni autore deve avere il coraggio di confrontarsi.

Sappiamo che è uscito il tuo nuovo lavoro Isolde, raccontaci in breve di cosa si tratta.

“Isolde non c’è più” è un racconto lungo che presto diventerà un vero e proprio romanzo e anche qui, come nel Fiume, abbiamo come tema principale il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. In questo caso, ad affrontare il “viaggio” sarà Golvan, innamorato da sempre della ragazza sbagliata. Al suo fianco ci sarà Isolde, vera anima del racconto: una ragazza sui generis che beve litri di cioccolata calda e ascolta musica sdraiata sul tappeto. Ho voluto raccontare la linea sottile che separa l’amicizia dall’amore e, soprattutto, il costante stato di solitudine nel quale l’uomo vive, seppur tra tanta gente, fino al momento in cui non riesce a trovare il vero amore.

A cosa stai lavorando adesso?

Sto scrivendo un noir. Lo so, lo so, è assurdo, soprattutto di questi tempi, però non posso proprio farne a meno. La storia mi è esplosa dentro ed è necessario che io la scriva. Contemporaneamente sto editando un altro romanzo. Parole chiave? Parigi, la libreria Shakespeare & Co., due aspiranti scrittori.

Ringrazio Bianca per la gentile collaborazione.

Recensione dell’album “Il Profumo di un’Era” e intervista all’autrice Amelie

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L’album “il profumo di un’era” della cantautrice Amelie é un lavoro importante, intenso e ricco di sensazioni. Un rincorresti di emozioni, tra brividi e riflessioni. Si ha questa impressione sin dal primo brano “Il nuovo mostro”, che racconta un viaggio in tonalità minore. L’oscurità della notizia oltre il nero dell’anima. La dinamica del mostro. Un viaggio nell’anima umana, nella sua parte più sporca. In “Messaggi” si parla di credere in un ritorno, nell’essenza di un pensiero. L’Atmosfera del brano é intima, una musica che avvolge, che trascina. Guardi nell’anima, guardare oltre l’anima. Il volto della luna, quello sconosciuto. “Il Profumo di un’era” é una ballata al limite tra cielo e terra. Tra anima e pensiero. La trasposizione della realtà, il viaggio nell’altra dimensione, traghettati dal ricordo, dal pensiero. Dall’emozione. L’Evocazione dei ricordi e il lascito degli insegnamenti di una madre. Amelie svela la sua anima tra le note sofferte di un pezzo sicuramente importante e che mette in luce una grande maturità artistica e personale. “Milano” racconta l’amore per una città, per le sue vie. Per sue sensazioni. Le due anime di un luogo, l’essenza dei passi nel centro di pensiero. Un Natale rarefatto, pensieri che si raccontano, un momento più in là, oltre quel pensiero che coglie all’improvviso. “Zero” é il ritorno un mondo oltre noi. La fatica di essere se stessi, oltre l’orizzonte. “Con naso all’insù” é una ballata intensa, che mette al centro la passione di un sogno. Tra realtà e illusione. La follia di crederci, nonostante tutto. “Mondobit” é un pezzo ritmato, che richiama sonorità tra anni ’80 e ’90. Una dinamica di modernità, la realtà virtuale distorta da sentimenti artificiali. Cosa saremo? Chi saremo? Luoghi distanti, senza farsi male. Senza guardarsi. Un sguardo nel futuro, per non dimenticare il passato. Chi siamo. “Ti ho ucciso con un click” sulla scena di una storia, guardare una storia d’amore, da un punto impassibile. Senza rimorsi, senza trasparenze. Ballata intensa e profonda. Un brivido, che non si può nascondere. Soave. “L’alieno delle 3” parla della diversità. La conoscenza sconosciuta. La violenza del giudizio, della libertà negata. Il peso dell’ingenuità. “Dicembre” é un giorno in cui nevica e c’è il sole. Il paradosso del sentire un mistero, della vita oltre lo specchio di ciò che sembriamo. “Un’altra vita”. Racconta di una storia finita. Girare pagina, costruire un’altra vita. Una nuova vita. L’addio che fa male, ma che è l’unica soluzione. Il ricordo che rimane lontano. Un altro nome. Un’altra età. Ricominciare a vivere. Perdersi, per ritrovarsi. Ancora. “Che cosa c’è” é un viaggio tra note sibilline, intendere, capire. Incontrarsi al margine di un attimo. Raccontarsi, reinventarsi. Cambiare. “Polaroid” é il brano che chiude l’album. Fermare un attimo, nella cornice di una polaroid. Non nascondere nulla, mostrare l’evidenza della realtà. Mettere in luce i difetti, farsi vedere per ciò che si è. Immortalare l’ideale di un amore, tradito dalla sua essenza. Ingannarsi, per difendere il senso. Il profumo di un’era é un album che lascia emergere la bravura di Amelie, dal l’impostazione tecnica vocale, all’intensità delle interpretazioni. Un disco completo, che raccoglie testi più leggeri e più profondi. Un viaggio nelle emozioni più diverse, con brani che emozionano e fanno sognare. Brava Amelie, bello il disco, sicuramente da ascoltare. Un’ottima compagnia.
Molto buono. È il bene più prezioso che ho fin da piccola. Ho imparato a coltivarla, a gestirla, ad amarla e ad indirizzarla su uno stile di canto (credo e spero) molto personale (così mi viene spesso detto sia da addetti ai lavori che da ascoltatori).Trovare il proprio stile di canto, al di la dello studio della tecnica, credo sia la cosa più importante. Una volta che ci riesci ti senti completo,riconoscibile, ed io, dopo molto impegno, studio, passione, in questo momento mi sento gratificata. Nonostante io insegni tecnica vocale, credo che la cosa più importante per chi usa la voce a livello artistico, sia sempre la personalità timbrica ed espressiva. Se sei riconoscibile hai una marcia in più, che si piaccia o meno (quello dipende sempre dal gusto personale di ognuno). È pieno di gente che canta bene ma che confonderesti con altri cento cantanti. Per cui ho sempre lavorato cercando di tirare fuori I lati che preferisco del mio timbro, adottando per esempio uno stile basato sull’”aria”, sul soffiato e sulla voce leggera, divertendomi a giocare (soprattutto in questo nuovo disco) anche con parti liriche (come in “Polaroid”) o parti “urlate” in belting (come “Milano”, “Zero”). Diciamo che, riassumendo, la tecnica ti mette a disposizione solo tutti I colori della tavolozza, e poi tu scegli quali usare. Ritengo importante però che sul pop italiano e ancora di più sulla musica d’autore non si debba sempre adottare un virtuosismo esagerato per mettere in primo piano la vocalità a scapito delle parole o della musica. Preferisco il virtuosismo messo a disposizione della propria qualità timbrica e dall’espressività che riesce a creare emozioni. Quando canti canzoni che scrivi è sempre importante trovare l’equilibrio e la perfetta formula tra voce, testo, musica, arrangiamento. La voce è uno strumento che ha il compito più difficile: quello di far parlare una canzone.
Ho posto alcune domande ad Amelie. Ecco le sue risposte.
Un disco sofferto, sicuramente. Cosa ti ha spinta a entrare nella mente dell’uomo per descriverne i lati oscuri e le sfumature delle emozioni?
Lo puoi dire forte. Ho trascorso due anni a fare una sorta di “ricerca” interiore attraverso suoni, sensazioni, emozioni, ricordi: il tutto attraverso un approccio molto serio di quello che è il puro concetto di “musica”, concentrandomi su una maggiore conoscenza della mia “spiritualità” (espressa attraverso la mia voce e le mie melodie). È stato come un viaggio di esplorazione bellissimo e anche doloroso; è come se durante questa avventura mi fossi resa conto di quanto essere “umani” possa portare ad avere un mondo eterogeneo e ricco di sfumature non sempre belle. Per questo mi son presa del tempo. Ho voluto raccogliere e raccontare questa varietà attraverso brani molto differenti tra loro che possano in qualche modo descrivere le varie sfumature. Ed ecco quindi pezzi con più lati oscuri, noir, quasi cinici, e pezzi più luminosi e solari, intimi e riflessivi.
Che rapporto hai con la tua voce?Nel brano “Il profumo di un’era” racconti una storia intensa e un rapporto che ti ha segnata. Quanto ti è costato scrivere questa canzone?
Il Profumo di un’Era è il brano del disco a cui sono più legata. L’ho sognato e ha preso vita subito al mio risveglio. Io ho composto la musica. Per l’arrangiamento ho lavorato in simbiosi con Giovanni Rosina mentre per il testo ho affidato il tutto a Fabio Papalini, mettendo solo qua e là qualche mia parola o frase (come per il lavoro svolto su tutto l’album). Fabio aveva appena vissuto la perdita di sua madre e quando mi ha inviato il provino del testo è riuscito a commuovermi fino a farmi piangere: questo è quello che cerco nella musica: emozioni. La sua storia è raccontata in modo talmente universale e allo stesso tempo intimo che alla fine credo porti ognuno ad immedesimarsi in questo dolore. Io personalmente ho associato il testo alla perdita di mia nonna, una specie di seconda mamma (nel video infatti utilizzo delle sue foto risalenti ai primi del Novecento). Il messaggio del “Profumo di un’Era” credo riesca a trasmettere un messaggio facilmente condivisibile: le persone che ci trasmettono valori intramontabili ci lasciano un “Profumo” che non puoi dimenticare nonostante la loro assenza materiale e nonostante il tempo fisico scorra velocemente.
In questo disco ti sei molto raccontata e guardata dentro, come ti sentissi nuova. Cosa è cambiato in te? Come descriveresti questa nuova Amelie?
Sicuramente più forte, meno fragile, più concreta e più determinata. Mi sento più matura anche se alla mia età questo termine fa anche un pò ridere (sarebbe più opportuno utilizzare il termine “pensionata” ) :D. Ma c’è stata davvero una crescita e un cambiamento. Nel primo album per esempio mi ero limitata a scrivere solo 2 pezzi e rivestivo molto di più il ruolo di pura interprete. In questo disco invece sono tornata ad essere musicista al 100%. 10 canzoni su 13 sono mie, sono nate proprio da mie composizioni al pianoforte; alcune pre produzioni sono state fatte da me in prima persona. Ho lavorato tantissimo al lavoro di arrangiamento in simbiosi con Il mio insostituibile produttore Giovanni Rosina e conosco a memoria ogni suono usato in produzione. Sul brano “Che cosa c’è” per esempio, oltre ad aver composto la musica, ho voluto fare io interamente l’arrangiamento (ho imparato a usare abbastanza anche Logic ed è stata la fine…ci sto attaccata fino alle 5 del mattino). Per quanto riguarda i testi invece ho collaborato (come ti dicevo prima) con l’autore toscano Fabio Papalini: c’è stata anche con lui molta condivisione; ci confrontavamo sulle frasi, sulle parole da utilizzare o su qualche cambio armonico che potesse sottolinerare parole forti… abbiamo trascorso insieme intere nottate e giornate a parlare per esempio delle tematiche affrontate. Mi sono molto divertita in questi due anni, nonostante fare ricerca interiore comporti anche momenti dolorosi e non sempre facili. Ma la parte creativa è sempre quella che preferisco.
Sei molto presente sui social e ci sono diversi riferimenti in alcuni tuoi brani, racconti anche un po’ la solitudine di questi luoghi e si percepisce la nostalgia di una realtà meno virtuale. Qual è il tuo rapporto con la realtà “virtuale”?
Ultimamente il mio rapporto è cambiato molto. Aggiorno sempre tutto da un punto di vista professionale, mettendo sempre meno invece contenuti privati. Generalmente ho notato che negli ultimi anni c’è stato un cambiamento radicale del web. Nell’ultimo periodo c’è davvero troppa roba ed è difficile emergere in mezzo alle tonnellate di informazioni (soprattutto visive) che affollano i social. Oggi le “cose leggere” o basate su una semplice immagine inevitabilmente attirano maggiore attenzione, richiedono meno tempo e sono più immediate. Pertanto diffondere musica o progetti in cui c’è bisogno di un interesse meno “immediato” che richieda più tempo per un ascolto o una lettura (di una recensione per esempio) è una cosa che viene fatta davvero dalla minoranza….si sa che ormai I social sono luoghi sospesi in cui se condividi un selfie vieni sommerso di like e commenti, se condividi un articolo o un brano musicale, hai sicuramente meno gente che si mette li ad ascoltare con reale interesse lasciandoti un commento contestualizzato. Credo sia importante anche imparare a riconoscere coloro che ti seguono in modo fedele perchè davvero appassionati a ciò che proponi artisticamente, da chi invece commenta solo all’inizio per apparire e farsi notare o per pretendere magari qualcosa che vada oltre la semplice conoscenza virtuale o sostegno professionale. Con questo non voglio però gettare solo critiche sul web. A me in molte occasioni ha aiutato molto e ho conosciuto persone con le quali ho imparato anche a costruire bei rapporti di stima. Diciamo che generalmente la superficialità penso domini non solo nella vita reale, ma ancora di più sui social e su web, perchè di gente che perde un pò più di tempo ad ampliare veramente la “conoscenza” di qualcosa sui social ce n’è davvero poca e ahimè forse la musica di nicchia fatica ad emergere come al solito, a meno che non si nasca geni del marketing web….ma spesso chi ha animo artistico, si sa, con il marketing va poco d’accordo. Comunque come sai nel nuovo disco ci sono pezzi che parlano proprio di questa superficialità da web: in “Ti ho ucciso con un click”, dico proprio “Sei un cuore virtuale mi fai stare male, ti ho ucciso con un click”. Ormai il click è diventato anche una sorta di Crick.
Nel brano “Polaroid” emergono sfumature amare nei riguardi dei sentimenti, come a voler fermare un attimo passato, perché non possa sporcarsi. L’amore, oggi, è ancora quello che raccontavano i cantautori di una volta, o è qualcosa che si è già “sporcato”?
L’amore è qualcosa di grandioso che è stato esplorato dai più grandi cantautori in modo sublime da De Andrè a Tenco, da Endrigo a De Gregori, Battiato (che stra adoro). In Polaroid viene messo al centro un amore specifico: l’amore per la verità. Polaroid è proprio una sorta di inno alla verità. L’amore per la verità, certe volte fa male. E’ deleterio. Ci espone a consapevolezze di ogni tipo. Ed è inutile tentare di non vedere le proprie e altrui verità perché “tanto stanno sempre là”. Ma se si è abituati a farlo, o si vorrà navigare “a vista e non di schiena”, non se ne potrà fare a meno. Inizierà in quel caso un’ Era della nostre vite costellata di rivelazioni bellissime o forse di delusioni, rovine e catastrofi di dimensioni cosmiche, per noi. Ma siccome amiamo la cifra dell’ironia in ogni caso, a maggior ragione in questo frangente farà la differenza prendere tutto con savoir faire mantenendo sempre un certo “stile”. Per cui anche l’amore inteso come sentimento potrà rivelare un aspetto meraviglioso oppure solo “pornografia” (come si dice nel testo). Polaroid è uno dei 3 brani del disco che non ho scritto io in prima persona (zulian/papalini) ma come gli altri due unici pezzi non scritti da me (Messaggi e Mondobit), è nato esclusivamente per la sottoscritta e credo si senta. Zulian e Papalini lo hanno composto dicendomi subito “lo abbiamo scritto per te”. E appena l’ho sentito ho capito. Come Messaggi e Mondobit si inserisce perfettamente nel mio modo di concepire la musica e sembra davvero una mia composizione. Naturalmente insieme al Rosina ho lavorato poi all’arrangiamento per stravolgerlo e farlo ancora più “mio”. Ogni volta che ascolto il finale con quella coda strumentale con la parte lirica mi emoziono. E’ il giusto finale di quello che ho vissuto in questi due anni. Sono una sostenitrice (anche un po’ idealista) del concetto di verità, sempre. Nel bene e nel male. Per questo ho voluto concludere il tutto dicendo: “Scattiamo due polaroid del finale, con stile diciamoci così sia”.
Come descriveresti il tuo album in un twit?
Un’avventura musicale “col naso al’insù” tra “nuovi mostri”, “alieni delle 3”, “messaggi” e “click” per arrivare a scattare una “Polaroid” di “Un’altra vita” che parta da “Zero”. Tutto per assaporare il Profumo di un’Era, la nostra.
Ringrazio Amelie per la collaborazione, la professionalità e soprattutto per la simpatia.

Recensione del romanzo “Niente è come te” e intervista all’autrice Sara Rattaro

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Il romanzo “Niente è come te” di Sara Rattaro è un flusso intenso, impetuoso e turbolento, di emozioni. Un impatto emotivo che non lascia scampo e che pagina dopo pagina conquista il lettore, lasciando emergere ricordi, sensazioni e pensieri rimasti nascosti da qualche parte. Ogni parola è conflitto e redenzione, immagine e sfumatura. I personaggi esplodono con la loro anima pulsante e con tutte le sfumature del loro carattere. La storia fa riflettere su un tema oggetto di attualità e che spesso appare davvero poco conosciuto, quello del “rapimento” di un figlio da parte di uno dei due genitori. In questo caso è diritto a essere padre a essere negato. E’ una distanza che viene imposta, non solo geometrica, ma psicologica. Questo romanzo racconta la sofferenza di un padre che non può vivere più integralmente la sua vita, che non può essere presente mentre la sua bambina cresce. E’ un padre che non è più un padre, bensì una figura nebulosa che scompare gradualmente agli occhi di sua figlia. Che diventa man mano sempre più lontana e ininfluente, fino a essere sostituita da un altro padre. La voglia di rivedere la sua creatura diventa un’ossessione, uno scontro odierno con la burocrazia, con l’ingiustizia e, infine, con se stessi, con quella sensazione di “aver sbagliato tutto”. Il protagonista è Francesco, un uomo che sa amare e lo fa fino a consumarsi dentro. Il destino gli riporta Margherita, la figlia che gli era stata portata via. Francesco deve imparare a conoscerla. Margherita deve scoprire che l’ha sempre amata. Che non l’avrebbe abbandonata. “Niente è come te” è un viaggio nei sentimenti, da quelli più colorati a quelli più oscuri, dal sapore della vittoria a quello della sconfitta. Il bianco e il nero e viceversa. Un romanzo che entra nell’anima senza nemmeno bussare. Devastante nella sua crudezza e nella realtà di una quotidianità difficile. Il rapporto padre figlio sembra quasi sempre normale, scontato. Sembra assurdo che a un genitore possa essere negato di veder crescere il proprio figlio. Eppure accade. Sara Rattaro mette in luce il dramma di tanti uomini e donne che ogni giorno vedono negato il proprio diritto. Una sofferenza che vieta anche di vivere, di avere il coraggio di rifarsi una vita. Di andare avanti. Ci sono pagine che vengono strappate e nulla potrà sostituirle, non esiste un surrogato dell’amore, l’amore per un figlio è qualcosa di più. Quel bambino è la cosa più importante, quella certezza di avergli donato la vita e la voglia di vederlo nascere, crescere, insegnandoli i primi passi e, poi, a vivere. Quel bambino a cui dire, niente, ma proprio niente, è come te.
Ecco una breve intervista all’autrice di “Niente è come te” Sara Rattaro:

Il “rapimento” di un figlio, sicuramente un tema difficile da raccontare. Cosa ti ha spinta a entrare in questo mondo così ricco di contraddizioni?

È stato l’incontro con uno dei protagonisti veri di questa storia. Un uomo che non ha contatti con sua figlia da molti anni. Grazie a lui sono venuta a conoscenza di molte storie che coinvolgono molti italiani e italiane che spesso non sanno nemmeno dove si trovino esattamente i loro figli.

Esiste un “giusto e sbagliato” in un caso di rapimento di un bambino? C’è in qualche modo una forma di “giustificazione” a un’azione così perfida?

È difficile dare una risposta. Chiunque decida di andarsene con un figlio in un modo così brutale deve avere delle ragioni in cui crede fermamente, che queste siano giuste o sbagliate è un altro discorso. La verità è il vuoto legislativo che governa questa situazione e che non permette mai di fare chiarezza e che tuteli le uniche vittime di tutto questo che sono i minori.

E’ legittimo pensare che chi scappa con il bambino da casi di violenza domestica metta in pratica un vero e proprio rapimento? Nel senso, ci sono secondo te casi in cui è necessario portare via il bambino?

Forse sì. In casi di violenza la situazione è molto diversa da quella che racconto. Bisogna considerare che il 93% delle accuse di violenza che vengono fatte contro un coniuge per giustificare la sottrazione, con il tempo vengono considerate infondate e decadono. Spesso è la migliore arma usata sia per prendere tempo che per facilitare l’allontanamento dell’altro genitore.

Nel romanzo racconti i disordini emotivi e alimentari dell’adolescenza legati alla disgregazione del rapporto tra i genitori, quanto questi due fenomeni sono collegati nella società moderna?

Credo sempre di più o forse ora se ne parla con più attenzione. Tutti i disordini emotivi e alimentari dell’adolescenza sono spesso riconducibili a disordini affettivi famigliari. I ragazzi che vivono la sottrazione di un genitore e la sua alienazione sono i più a rischio, sia che questo avvenga in seguito a un allontanamento internazionale che non.

Quando un uomo e una donna smettono di amarsi, smettono in quell’istante anche di conoscersi? Viene legittimo procurare un dolore anche quando non c’è motivo? E fino a che punto è corretto dire “lo faccio per il bene del bambino?”

Questa è una domanda molto difficile. Non so perché ma so che accade e molto spesso e non bisogna andare a cercare le coppie miste per averne la prova di un odio coniugale che supera l’amore per i figli. Troppo spesso si vedono situazioni in cui i figli sono merce di scambio o di ricatto per ottenere qualcosa o ferire l’altro coniuge. Quello che ogni genitore dovrebbe tenere presente è che le conseguenze di ogni azione coinvolge sempre e soprattutto il figlio, soprattutto l’odio.

L’amore è sempre un sentiero tortuoso, anche in questo romanzo sei riuscita a entrare oltre il sipario delle storie e dei sentimenti dei personaggi. A raccontarli con la ormai consueta maestria, quanto hai lasciato della tua anima in “Niente è come te”, quanto ti appartiene?

Mi appartiene, come tutte le mie storie, moltissimo e soprattutto appartiene al momento della mia vita in cui l’ho scritto e a tutto quello che mi ha insegnato soprattutto dal punto di vista umano. C’è stato un momento preciso in cui quella storia ha smesso di essere un fatto di cronaca durissimo e si è trasformato nel mio romanzo, e questo delicato passaggio lo ha voluto chi mi ha generosamente aperto il suo cuore raccontandomi un grande dolore, forse il peggiore incubo per un genitore.

Ringrazio Sara Rattaro per l’intervista e soprattutto per avermi regalato le emozioni del bellissimo romanzo “Niente è come te”.

Due parole sul romanzo “Il Suggeritore” di Donato Carrisi

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Il suggeritore è un romanzo particolare, sicuramente scava nelle ombre che tutti noi abbiamo dentro. Crea un serial killer moderno, intelligente. Uno stratega del mare. I personaggi sono molto profondi e con un passato interessante. A volte troppo. In alcuni passaggi del romanzo si notato diverse forzature, che non infastidiscono più di tanto, ma rendono alcune scene surreali. Sicuramente la trama è coinvogente e si rimane attratti da ogni singola parola e pagina sino alla fine. Mila è la protagonista e a volte sembra eccedere nel suo ruolo. Strano il protagonista Rogan Gavila, a volte sembra non avere una perfetta collocazione nel romanzo, nonostante il ruolo fondamentale. Cosiglierei questo romanzo perchè nella sua durezza fa riflettere. L’autore guida il lettore nel lato oscuro nei suoi sogni, nell’essenza della vita e del suo contrario. Il male contro se stesso in un’esecuzione che sembra non voler terminare mai. Proprio come il male stesso. Un romanzo avvincente e carico di sensazioni e adrenalina. La domanda è: riusciranno mai a prenderlo? La risposta è: Sì, ma chi?

Recensione romanzo “Waiting Room” di Bianca Cataldi

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Il romanzo “Waiting Room” ha il sapore della storia, quella di una terra e sin dalle sue radici e origini. La storia si svolge nella Puglia degli anni quaranta, in un periodo strano, in cui l’eco della guerra sembra lontano, ma è lì a un passo. Emergono le contraddizioni culturali della gente, i pregiudizi e i sogni a metà tra speranza e disillusione. Tra amarezza e odio. La protagonista è Emilia, una donna la cui storia si svolge su due tempi diversi. Lei, la giovane ragazza che deve rinunciare al suo amore. Lei, la donna ormai anziana nella sala d’attesa del dentista. E’ la storia del suo amore per Angelo. Un ragazzo che le ha in qualche modo cambiato la vita e allo stesso tempo un uomo travolto dalla passione per musica e dalla voglia di vivere. La narrazione è scorrevole e coinvolgente. Appassionata. La storia ricca di punti emozionanti e intriganti. L’amarezza per un amore che sfugge nella notte. Che torna, ma che è sempre diverso. Tra le righe si sente il tempo che trascorre, i sogni che si trasformano. C’è quel rancore represso, una forma strana di invidia, per un futuro che ha lasciato spazio ai ricordi. C’è però anche la speranza che rinasce in occhi diversi, quelli di una ragazza che scrive qualcosa su un foglio e in quelli delle sue giovani vicine di casa, che man mano che crescono e che si allontanano, lasciandola ancora una volta sola con i suoi ricordi e la sua amarezza. Leggendo questo romanzo, sembra di restare in quella sala d’attesa, quasi come una metafora perfetta della vita stessa. Aspettiamo qualcosa, mentre parliamo con i nostri rimorsi.

L’autrice è Bianca Cataldi, una giovane scrittrice, editor e brillante blogger, che dimostra una maturità narrativa importante, che riesce a passare e oltrepassare l’anima di due personaggi, uniti da un filo fragile. Riesce a far viaggiare il lettore senza continuità di tempo e spazio nei cambiamenti, oltre il tempo e lo spazio, raccontando il lato positivo dell’amore e il logoramento che la vita impone. Mette di fronte a delle scelte, dure, difficili. Ma inevitabili. Coglie nel segno evidenziando la limitatezza di una cultura in quei tempi antiquata, che uccide, che può strappare via l’amore per lasciar vincere la convenienza, che inneggia a un’etica nata sbagliata. Una finta morale che lacera sogni e prospettive e che trasforma la donna in qualcosa da “piazzare”, incuranti di ciò che davvero vuole. Si percepisce la fiamma di qualcosa che sta cambiando. Che cambierà presto. Un romanzo che emoziona e commuove, che ti lascia lì in attesa di un treno, che forse non partirà mai o che non si avrà il coraggio di prendere. Restare lì. Nella sala d’attesa. Di una vita da scoprire, pagina dopo pagina. “Waiting Room” è un bel romanzo, da leggere tutto d’un fiato. Che riesce a far sognare, nonostante l’oppressione di una realtà, che talvolta ha il rumore dei colpi di mortaio. Nemmeno troppo lontani.

Valeria Crescenzi. La voce, le parole.

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Non molto tempo fa, alla premiazione del premio InediTO al Salone del Libro di Torino, ho scoperto un’artista davvero interessante che ancora non conoscevo. Si chiama Valeria Crescenzi. Cantautrice intensa nella voce e con brani che si lasciano ascoltare, decisamente attraenti e con uno stile affascinante. Il brano “Unghie” è un bel racconto, una strada fatta di metafore taglienti, di sogni e di pelle, cercarsi oltre le mani. Il senso più profondo, nota dopo nota. Istante dopo istante. “Natale” è una canzone carica di colori, di immagini succose e brividi che restano lì, appesi a quel momento così strano, che sembra incomprensibile. Quando attorno cambia tutto, ma si vuol restare lì. A guardarsi dentro. Sapendo che quel che cerchi, lì, non lo troverai. In “Mani giunte” sembra di risentire una giovane Carmen Consoli, intensa e comunicativa. Sfumature colorate e amare, giorni che si lacerano, tra le pieghe di un tramonto, tanto bello dal sembrare cattivo. Il pezzo “Il contrario” svela l’anima, come una certezza che incanta il dubbio stesso, come il cercarsi senza chiedere il permesso. L’attesa che diventa una visione chiara. Certa. Chi sei, nelle carte da gioco, nel gioco del trovarsi. Vivi. Ne “La donna vera” c’è un filo di voce che racconta un mondo sconosciuto, in un viaggio oscuro e pieno di senso. Un profondo incanto. Un incauto istante. Quel che nessuno può capire. L’anima di una donna. Quello che vuole. Che quello che cerca. Quello che è davvero. Il suo volto, perso nelle vibrazioni delle corde di una musica e di una verità indissolubile. Valeria Crescenzi è una cantautrice da scoprire e da seguire con grande interesse.

Recensione “Diario da Haiti” di Ignazio Schintu e Francesca Basile

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“Diario da Haiti” ė un flusso pensieri, immagini e momenti intensi. C’ė tutto il senso di una missione del Croce Rossa in uno dei luoghi devastati dalla natura, da un terremoto che ha colpito e distrutto speranze in una comunità già povera e con pochissimi mezzi. Ogni pagina di questo libro racconta però la voglia di vivere e rinascere dalle macerie, dalla malvivenza che imperversa nelle strade. Dalla polvere. Si riesce a sentire in ogni parola dalle proprie ceneri. Si percepisce in ogni parola la passione per una scelta di vita. Per una missione. L’impatto psicologico di calarsi in una vita nuova, dove bisogna ricostruire tutto e aiutare un popolo a rialzarsi, garantendo loro i bisogni primari. Un aiuto concreto ai vulnerabili. A uomini e donne che hanno vissuto un trauma, che hanno perso i propri cari. Il libro racconta in modo dettagliato e scorrevole cosa vuol dire la costruzione di un campo di emergenza, i meccanismi che si celano dietro il progetto di missione, gli equilibri interni, i momenti critici e i legami che si sviluppano con le persone del posto, con i workers, che supportano gli operatori della Croce Rossa Italiana nei lavori necessari per mandare avanti un campo di emergenza. “Diario da Haiti” racconta il senso più profondo dell’accoglienza e della gestione dell’emergenza. Un mondo difficile. Ricco di insidie e ostacoli da superare tutti i giorni. Molto bella l’immagine del “fare l’acqua”, la caparbietà e la volontà degli operatori di riparare il potabilizzatore, necessario per garantire acqua potabile in un luogo della terra in cui l’acqua è il bene più prezioso. Unviaggio nella psicologia dell’uomo, dell’anima, nell’anima. Dare tutto per ottenere il benessere delle vittime, dei vulnerabili. In un mondo che corre veloce, che non rispetta niente è una lezione di vita importante. Un libro che nasce dal bisogno di raccontare cos’è davvero una missione dell Croce Rossa Italiana, quali sono le difficoltà. Come lavorano gli operatori e quanta professionalità e dedizione mettono nel loro lavoro. Rendere partecipi della complessità del mestiere di operatore di Croce Rossa Italiana. L’importanza di muoversi in fretta e con efficienza, senza tralasciare la sensibilità. “Gli operatori non sono degli Indiana Jones. Sono persone, che devono saper convinvere con la sofferenza. Anche con la morte” ho sentito dire a Ignazio Schiuntu durante la presentazione di questo libro al Salone del Libro. Credo che questa frase racchiuda il senso di “Diario da Haiti”. Un testo che ben si inserisce all’interno e oltre le polemiche che riguardano l’accoglienza dei migranti. Un viaggio da leggere, comprendere e assolutamente consigliato, scritto in modo diretto, schietto e magnetico.

Recensione album “Mezzanota” di Chiara Jerì e Andrea Barsali

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L’album “Mezzanota” del duo Chiara Jerì e Andrea Barsali è intenso e attrae con melodie e atmosfere soffuse e taglienti. C’è tensione, brividi e incanto. Tutto quel che può dare un disco. Ma entriamo nel vivo di questo album. “Goccia a goccia” è un pezzo profondo, carico di sensazioni e parole che plasmano le emozioni. Mattone su mattone. Brividi. Sogni che si fanno guardare, appesi al soffitto. Poi, la pace. In “Amore mio, hai ragione” c’è l’amarezza che si vede oltre il buio. Quella sofferenza celata nei silenzi. Quelli che tornano, all’improvviso. Che lasciano persi. Aldilà della luna. Reinventarsi e ritrovarsi, tra le ombre del buio. L’involucro dell’anima. Il brano “Canzone II” racconta del cercarsi, tra strade sconosciute, parole da incantare. Suoni che stregano. Nobiltà di intenti, misteri di un sentimento che non si fa capire mai davvero. “Fino all’ultimo minuto” è una ballata “leggera” che viaggia nelle profondità di un pensiero. Nel senso di una lacrima. Nel vuoto di un ricordo. “Innesco e sparo” è un pezzo con un suono tra folk e ballata popolare che contiene sprazzi di immagini e scene. Ipnosi. Genesi del mondo. Il senso oscuro dell’anima. La difesa di quel senso. Fino all’ultimo. Veleno e gioco sporco, parole, ossimori che incantano in una canzone senza tempo. “Ballata della ginestra” è una lettera che nasce nella notte. Dalla notte. Dalle parole taglienti della passione di un favola. Dove un fiore nasce e un sogno cresce. Vive. Si innamora. “La donna cannone” è una canzone che certo non ha bisogno di presentazioni e in questo brano i due musicisti creano un vero omaggio, una perla che lascia senza parole. Incantevole. “Notturno dalle parole composte” è un poetico abbandono, quando la voce diventa roca. E il vento si fa insistente. L’inverno ora ha paura. Di un amore che nasce. Ed è forte. Perché sa ferire. A modo suo. “Vorrei” è come perdersi, nelle note e nel tempo che scandiscono. Inesorabili. L’assenza. Quella pausa che sembra non voler finire. L’essenza. Di scivolare lì infondo dove tutto svanisce. E torna allo stesso tempo a rinascere. Dai semi di un amore che non sa morire mai davvero. “Mezzanota” è un album che ipnotizza per le atmosfere e le immagini. Che svela l’amarezza e la veste di senso e colori. La rende viva. Quasi una persona. Tra favole crude ed emozioni nude. Che senza pietà entrano dentro. Voce incantevole e musicalità eccelsa. Un ottimo disco. Passionale, dolce e spudorato nella sua essenza. Un disco vero.

Recensione album “Libera te” di Roberta Pagani

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L’album “Libera te” di Roberta Pagani inizia con il brano “Nuova Luna”. Un pop che ricorda il sound anni ’80. Una melodia che non sembra tuttavia decollare. Una voce che dimostra molta tecnica, ma la base che colpisce.e la struttura melodica è carente. La canzone “Tesla” è ricca di metafore, e richiami sentimentali per una melodia che anche in questo caso non entra nel vivo, troppo nebuloso e ripetitivo. “La legge di Darwin:” è il tentativo anche in questo caso di sfruttare l’analogia per costruire un testo originale, l’idea potrebbe funzionale, tuttavia la base e la melodia peccano. I giri vocali tendono a somigliarsi troppo verso dopo verso. Brano troppo gridato. “Gocce di inconscio” è un brano che si discosta in alcune parti dalle canzoni precedenti, c’è una miglior dinamica e flessiosità dell’incastro voce e melodia. Come già evidenziato nei pezzi precedeni la metrica apparre molto appesantita sulla melodia ripetitiva. “Libera te” è un pezzo che convince poco, con un ritornello che non funziona. Si percepisce la volontà di richiamare atmosfere anni ’80 o comunque del pop di quel periodo, ma il risultato è di non individuare l’obbiettivo. Ricorda alcuni brani di Antonella Ruggiero, con metafore ed evoluzioni vocali. Si percepiscono però le criticità già citate.“Naturale” è un brano che suona con una vaga tentenza dance, ma con una musica e un sound completamente non attuali. Il testo è vittima di una metrica che anche in questo caso non convince. L’album “Libera te” è un album che tenta di richiamare atmosfere conosciute, ma non affonda le radici. Ci sono metefore complesse che appesantiscono i testi e non danno lustro alla vocalità che potrebbe dare di più con melodie più studiate. Le basi non suonano bene e poco si adattatano alla voce dell’artista. C’è ancora molto da lavorare.