#LABIRINTO – Ep.3

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Fabio iniziò a muovere il mouse e riprese possesso del suo avatar. Osservò la ferita sul fianco della donna e cercò di tamponarla con la sua giacca.
Sapeva di avere solo pochi minuti per riuscire a salvarla.
Sentiva la crisi d’ansia arrivare.
Se fosse successo di nuovo lo avrebbero imbottito di farmaci come l’ultima volta.
Cercò di calmarsi e fece sollevare la donna. Una volta in piedi la fece appoggiare alla sua spalla e la accompagnó verso quello che era stato l’ospedale di Second Life.
Nella seconda schermata, accanto a quella del gioco virtuale, cercava tutorial su youtube su come fermare l’emorragia.
Giunti in ospedale, Fabio cercò la scritta “sale operatorie”.
Fece sedere la donna su una sedia a rotelle che trovarono all’ingresso e percorsero il lungo corridoio.

“Come stai?” Le chiese.

La donna non rispondeva. Stava perdendo troppo sangue. A ricordarglielo era la scia che stavano lasciando lungo il corridoio.
Entrarono nella sala e fece sdraiare la donna sulla barella. Era allo stremo delle forze.
Cercava di tenere a mente quello che aveva capito dei tutorial. Prese delle bende elastiche e del disinfettante. Ma non sarebbe stato abbastanza. Doveva rimuovere quella scheggia che spuntava dalla ferita. Avrebbe dovuto sederla.
Dall’altra parte della casa sua madre continuava a chiamarlo per il pranzo e aveva a disposizione poco tempo. Cercò di calmarsi e di analizzare quello che i tutorial dicevano.
Aveva sempre avuto paura del sangue. E stava pulendo una ferita di una donna che non conosceva. Toccò l’oggetto che fuoriusciva dalla pelle e si rese conto che non si trattava di una scheggia, ma di qualcos’altro. Pensò a un proiettile, ma era diverso, seppur la forma lo ricordasse.
Lo rimosse lentamente e tamponó la ferita, una volta fermata e disinfettata aveva bisogno di applicare dei punti. Pregò di non svenire.
La voce di sua madre era sempre più forte. Prese la corda anallergica e iniziò l’operazione.
La donna era ancora sedata. Sperava che il dosaggio dell’anestetico fosse sufficiente.
Poi la sentì urlare.
In quel momento la porta si aprì. Era riuscito a nascondere la schermata di Second Life.
Accanto a sua madre c’era una donna con un abito elegante ma sobrio. Aveva un mezzo sorriso forzato.

“Fabio, saluta la dottoressa. Dice che vuole sottoporti a dei controlli.”

“Fabio, vuoi vestirti e venire con me? Faremo tanti giochi. Ti va?”

Nelle puntate precedenti:

 

Prima puntata: Ep.1

Seconda puntata: Ep.2

 

#Labirinto – Seconda puntata

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Fabio non rispondeva.
“Mi senti?” continuava a ripetere la voce dalla radio.
“Sì” sussurró Fabio. Tratteneva a stento i brividi. Il suono della sua voce che si appropriava del corpo. Una sensazione nuova.
“Dove ti trovi?”
Fabio ricordava le parole dei suoi genitori. Dicevano sempre di non dare confidenza agli sconosciuti. Era molto tempo fa. Prima che tutto cambiasse. Prima che loro cambiassero.
“In Italia”
“Non sei solo, ora ci…”
In quel momento la porta si spalancó e comparve sua madre. Fabio era riuscito ad abbassare il volume della radio.
“Fabio, hai parlato? Mi era sembrato di sentire delle voci”
Fabio scosse il capo e indicò il computer.
“I tuoi stupidi giochi” affermò stancamente Francesca.
In quel momento il monitor del computer si riattivó sulla schermata di Second Life.
Fabio lo fissò per qualche istante. Francesca cercò di capire, ma come tante altre volte non ci riuscì e uscì dalla stanza.
Fabio provava a comporre i pezzi nella sua mente. Forse stava impazzendo, come più volte gli avevano detto i suoi compagni di classe. Non aveva mai visto nessuno in quell’antico gioco virtuale. Ma se la schermata si era avviata, qualcuno doveva esserci.
Fabio si avvicinò al monitor, prese possesso del suo avatar e si mosse lungo la via principale. Osservò le stradine laterali. Erano deserte. Superò il vecchio bar dove un tempo gli utenti si incontravano per conoscere l’anima gemella. Poi sentì un rumore lieve, entrò in una via laterale. Fece qualche passo e poi la vide. Era una donna immersa in un lago di sangue. Ma era ancora viva. E gli stava chiedendo aiuto.
#labirinto
Seconda puntata.

Per leggere la prima puntata, clicca qui.

 

#labirinto – la nuova webserie – puntata 1

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Fabio può restare ore a guardare fuori dalla finestra. I suoi genitori sono preoccupati, da un po’ di tempo é cambiato. Fa domande strane. I suoi amici dicono che è pazzo, i suoi medici che è autistico. Fabio però con il computer é un mago. E adora i video giochi. É curioso e ha scoperto un gioco del passato. Il primo tentativo di realtà virtuale. Si chiamava Second Life. Si è costruito un avatar, un personaggio con cui può girare indisturbato in un mondo ormai deserto. Fabio é appassionato anche di radio, un mezzo di comunicazione ormai superato. Le frequenze che un tempo portavano musica sono ormai silenziose. Soltanto in una delle frequenze riusciva a sentire un fruscio diverso dagli altri. I suoi genitori però non gli credevano. Sapeva che presto lo avrebbero riportato dai dottori e gli avrebbero somministrato quelle pillole. Proprio in quel momento dalla radio sentí una voce. Riesci a sentirmi?

#labirinto

La nuova webserie.

Prima puntata

La bambola

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Un racconto a cui sono molto legato è stato inserito nella raccolta #raccontidinascite pubblicato da AslTo5. Si chiama la bambola. Eccolo…

LA BAMBOLA

Riuscivo a percepirli appena, i tuoi occhi. Eri immersa tra le acque, con quelle manine minuscole, eri così pacifica. E dolcemente inconsapevole.

Nell’aria c’era elettricità. Ognuno di noi era intento con i preparativi, chi si occupava della stanzetta nuova, chi di scegliere una nuova culla. Io non avevo particolari compiti se non quello di osservare ciò che accadeva attorno a me, mi sentivo un piccolo soldato a difesa del forte. Nella stanza da letto dei miei genitori il mio fratellino più piccolo continuava a strillare e la sua voce riecheggiava nonostante la porta chiusa. Mi avvicinai e mi accorsi che non erano tanto le sue urla a rimbombare, quanto quelle dei miei genitori, che discutevano animatamente di qualcosa. E non era la prima volta che accadeva.

Qualche giorno prima eravamo andati a fare visita a dei parenti e da quel momento qualcosa era cambiato. Il gatto dei miei parenti era salito in braccio a mia madre e lei lo aveva accarezzato. Anche io lo avevo fatto. Ma già quando risalimmo in macchina sentii mio padre borbottare sul fatto che i gatti fanno venire le malattie. Mia madre non aveva risposto niente. Continuava a guardare fuori dal finestrino.

Mancavano due mesi alla tua nascita. E tutto era pronto. Accarezzavo il pancione di mia madre e nella mia testa mi sembrava già di tenerti in braccio. Ti sorridevo, inconsapevolmente. Anche se non mi potevi ancora guardare. Avevo sempre provato piacere a creare storie, immaginare personaggi che nella mia mente potevano fare cose straordinarie. E così immaginavo di portarti al parco, di farti vedere le mie macchinine, i miei Lego. Mia madre diceva che a te non sarebbero piaciuti quei giochi, che eri una femminuccia e che ti sarebbero piaciute le bambole. In quel momento però non mi sembrava una cosa poi così importante. Accarezzai ancora una volta la panciona che ti teneva al riparo dal mondo. In quel momento però notai qualcosa di strano sul viso di mia madre, delle venature che le solcavano il viso. Sembrava sofferente. Cercai mio padre nelle altre stanze, ma non c’era. Mi ricordai che era ancora al lavoro e che sarebbe arrivato da lì a poco. Lui sicuramente avrebbe saputo cosa fare.

Tornando a casa da scuola, mi piaceva passeggiare per le strade, anche se dovevo percorrere un tragitto di pochi isolati. Quel giorno suonai il campanello ma nessuno mi rispose. Che strano, pensai, a quell’ora in genere era già pronto il pranzo. E invece dal citofono non provenivano voci e il portone non si apriva. Qualche istante più tardi vidi comparire mio padre, trafelato. Aprì il portone senza dire niente e mi fece cenno di entrare. Il suo viso sembrava diverso. Salimmo le scale in silenzio. Aprì la porta di casa ed entrammo. Tra le mura regnava un silenzio spettrale.

“Dov’è la mamma?” sussurrai. A dire il vero non sembrava nemmeno una domanda, ma quell’interrogativo sembrò riecheggiare nelle stanze tornando indietro con un sapore fin troppo amaro rispetto a quando era partito.

“È in ospedale.”

“Ma non è presto?” replicai.

Osservai mio padre che sembrava non voler rispondere al mio sguardo.

“Che succede?” continuai. Nessuna risposta.

Mio padre mi preparò della pasta, ma non riuscii a mangiare niente. Anche lui non toccò cibo. Più tardi andammo a prendere mio fratello all’asilo.

“Posso venire anche io a vederla?”

“Non ti fanno entrare” mi rispose mio padre. “Devi restare a casa per un po’ con tuo fratello, torno presto” disse poco prima di scomparire oltre la porta di casa.

In quel momento riuscii a percepire il silenzio massacrante, quello che poteva superare di molto il pianto del mio fratellino. Quello che ti entra dentro. E che inizia a scavare.

Pochi giorni più tardi arrivarono i miei nonni, ma l’atmosfera era cupa, distante anni luce da quella che si respirava in estate quando ci rincontravamo. Li sentivo parlare a bassa voce, continuavano a ripetere senza sosta è colpa sua.

I discorsi che riuscivo a captare erano frammentati e nessuno mi raccontava mai nulla nel dettaglio. Rimanevo in silenzio per ore, come se riunendo quei frammenti riuscissi a vedere un quadro, un’immagine. Una spiegazione. La mamma stava male.

Una di quelle sere mi avvicinai a mio padre intento a evitare di sedersi a tavola con i miei nonni e rimasi a osservarlo.

“Domani la operano” esclamò. Quelle parole così secche e asciutte mi sembrarono un fendente violento che si insinuava dentro di me, ben oltre la mia pelle, mostrando una consapevolezza che si stava svelando in tutta la sua ferocia.

“È presto” dissi a me stesso. Senza capire cosa esattamente mi stesse facendo formulare proprio quel pensiero. Io sapevo che un bambino nasce dopo nove mesi. E invece ne mancavano ancora due.

Il giorno seguente non andai a scuola. Verso il primo pomeriggio mi recai con i miei nonni in ospedale. Una struttura che sembrava enorme, ai miei occhi. Mi dissero che anche io ero nato in quell’ospedale. Attraversammo interminabili corridoi e incrociammo decine di personaggi bianchi e azzurri con lo sguardo che mi sembrava assente. Tutti erano intenti nel far qualcosa che non capivo. Ci dissero di sederci in una sala dalle pareti bianche e l’odore di disinfettante. Mi limitavo a osservare le piccole pietre stampate sulle piastrelle. Sembravano tutte diverse, ma mi accorsi che invece si ripetevano. Quelle pietre erano tutte uguali.

“Potete entrare” comunicò un infermiere.

Il mio sguardo si aggirò smarrito cercando di incrociare quello dei miei nonni e di mio padre. Quest’ultimo mi prese per mano, incurante delle proteste dei miei nonni. Ed era il segnale insperato: sarei entrato anche io.

Mia madre era bianca in viso, coperta da una vestaglia a sua volta bianca. Mi strinse la mano, anche se la parola stringere è un eufemismo. Allora non sapevo cosa volesse dire questa parola, non sapevo tante cose, ma una era sempre stata una mia prerogativa. Leggere gli sguardi. E in quello di mia madre c’era qualcosa che non riuscivo a capire del tutto. Sembrava spento, lontano. Con la coda dell’occhio vedevo mio padre parlare con un medico.

“È nata?”

In quel momento il medico ci chiese di uscire dalla stanza.

Non credevo che sarebbe successo, che mi avrebbero portato a vederti. Eri nata e mia madre si era salvata, per poco. Ci sarebbe voluto ancora tanto tempo perché si riprendesse. Il medico aveva detto che forse l’interruzione di gravidanza era stata causata da un’infezione di origine felina. Né tu, né il medico sapevano che dopo quel giorno i nostri genitori si sarebbero allontanati per sempre. Riuscivo a percepirli appena, i tuoi occhi. Eri immersa tra le acque, con quelle manine minuscole, eri così pacifica. E dolcemente inconsapevole, che la vita è un soffio. E quando si nasce, si nasce per sempre. E anche se adesso conosco più parole, se ti ho vista per un solo attimo e so che siamo tutti piccole pietre uguali le une alle altre, se ora stringo ancora questa bambola che avrei voluto regalarti, io non ti ho mai dimenticata, Laura.

La risata della luna

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I miei passi lasciano orme di neve sul marciapiede, i miei sogni si perdono in fondo al viale. Il giorno di Natale, che odio. Chi poteva dirlo che sarebbe accaduto proprio oggi. Nei miei ricordi il tuo viso è ancora quello che avrei accarezzato il primo giorno che ti ho vista. Il destino gioca le sue carte, ed è sempre più bravo di me. Mi ha battuto. Dio solo sa quanto io odi perdere. I fiocchi di nevi scivolano sul mio cappotto. Nel cielo c’è una luna troppo piena, e sembra ridere. Nella tasca sento il telefono vibrare. Lascio che continui a emettere quel ronzio. Mancano solo pochi isolati, i miei passi rallentano. Mi fermo davanti al portone. Sembra gigante. Un anno, un attimo. Uno sguardo, due occhi verdi. I tuoi. E poi un viaggio, con lei. Ma la vita è un gioco di scacchi, e sono un vigliacco. Sono scappato, un’altra volta. Ho sempre avuto paura, anche della mia stessa ombra. Dei miei sogni. La luna questo lo ha sempre saputo. E ride, di me. Salgo i gradini, uno a uno, apro il portone e cammino lungo il corridoio bianco, che sembra non finire mai. Quel viaggio mi ha cambiato. Pochi mesi sono una goccia. Uno scalo, i tuoi occhi, verdi riflessi, sul vetro degli arrivi. Un bacio, soltanto uno. E poi un altro ancora. Il sapore della pelle sulla pelle. Il destino mi ha battuto, e che ironia, proprio il giorno di Natale. “Venga, mi segua. La stiamo cercando al telefono da almeno un’ora” mi dice l’uomo vestito di bianco. Io lo seguo senza riuscire a parlare. Quando le porte si aprono rivedo i tuoi occhi, verdi, provati. Sei pallida. No, io non ho mai saputo amare nessuno davvero, forse nemmeno me stesso. E ora che mi sorridi, mi mostri quel piccolo corpicino che piange. Scopro di aver sempre sbagliato tutto. Nove mesi sono una goccia, eppure in questa goccia c’è tutto. Ora so perché la luna rideva. Il destino mi ha battuto, e questa è la più bella sconfitta che potessi subire. Ora non odio più il Natale, e amo te, e la piccola vita che mi hai regalato.

Ho gli occhi aperti – Racconto

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Ho gli occhi aperti, o almeno credo di averli. Ogni volta che arriva, la mia testa esplode. Scandisce il ritmo di questa vita, in cui non posso né alzarmi in piedi, né toccarmi viso. Qualcuno mi inumidisce le labbra, secche e screpolate. Il sapore del liquido è aspro e mi disgusta. Ripenso ai suoi baci. L’ultima immagine che ho di lei è di una donna con gli occhi spalancati, preda del terrore, trascinata da due uomini fuori dal mio appartamento. Le esplosioni nella mia testa continuano. Non mi fanno dormire, mai. A volte credo di essere già morto, ma non lo sono. Ogni ricordo rimbomba per ore nella mia testa, come la goccia che instancabile cade sulla mia fronte. Eravamo al parco, quando i nostri sguardi si incontrarono. – Come ti chiami? – riuscii solo a chiederle. I suoi occhi sembravano un angolo di cielo. Mi attirò verso di sé e mi trascinò dietro un cespuglio. – L’abbiamo scampata per poco – disse, mentre due soldati in uniforme passavano marciando lungo la stradina sterrata. Sentivo il calore del suo corpo e il profumo di vaniglia. Mi baciò. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno, si allontanò, per sparire in fondo alla via. Qualche secondo più tardi uscii dal cespuglio e mi incamminai. Per un attimo incrociai lo sguardo di un passante e mi chiesi se ci avesse visti, ma il pensiero svanì nella nebbia, così come quell’uomo. L’ho rivista altre volte, fino a quel giorno. La testa mi sta per esplodere e quelle maledette gocce non si fermano. Continuano a cadere, sempre. Esplosioni che annientano la mia anima. Un rumore che mi uccide. Lentamente. Lei era la figlia di un uomo che si era ribellato allo Stato, al Regime Comunista. Un uomo che lottava per la libertà. Lui, era un sovversivo. Io, solo un uomo innamorato.

Il suonatore di violino – Racconto

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L’uomo camminava a passo veloce. Si voltò e vide che la donna con lo sguardo cupo chiedeva qualcosa ai passanti, mostrando un oggetto. Accelerò il passo, muovendosi tra lo sciame di passanti di un sabato pomeriggio nel centro di Milano. Si scontrò con una ragazza e per un attimo perse l’equilibrio, nel suo sguardo cercò qualcosa che placasse la sua inquietudine, ma lei, indifferente, riprese a camminare. Raggiunse la piazza e rallentò. Guardò il Duomo, soffermandosi sulla madonnina – Perché? – sentì chiedere da una voce, dentro di lui. Con la coda dell’occhio vide la donna chiedere qualcosa alla ragazza che l’aveva urtato poco prima e voltarsi entrambe nella sua direzione. Si confuse nella folla e imboccò la via che costeggiava il Duomo. Vide il portico pieno di persone che gli sembrarono piene di vita. E si sentì vecchio, improvvisamente. Alla fine della via una musica, struggente, lo attirò. E si fermò ad ascoltare un uomo con un impermeabile logoro che suonava il violino. Sentì le lacrime scivolare sul viso. Ripensò a una sera lontana, a un camerino, al suono dei passi sul velluto del corridoio scuro e sul legno dei gradini. Poi la luce, accecante. Il palcoscenico. Socchiuse gli occhi, cercando nel buio, tra la gente che applaudiva, un volto, uno sguardo. Sentì quel calore unirsi al tocco delle sue dita che si muovevano con grazia sui tasti bianchi e neri di un pianoforte a coda. Le note, i silenzi. La passione. Una voce alle spalle lo fece trasalire. Si voltò e vide una donna che non conosceva, affannata, con in mano una fotografia che lo ritraeva. – Ma dove eri finito? – gli chiese. Un’eco lontano, e per un attimo l’uomo riconobbe lo sguardo che aveva cercato nel buio. Si guardò le mani, rugose e raggrinzite. Tremavano. Non riusciva a fermarle. In quel momento le odiò, le sue mani. Poi il ricordo svanì – Quante volte il dottore ti ha detto di non andare in giro da solo? – disse una voce ovattata, quasi a nascondere le note strazianti del suonatore di violino.