Quelle scale sconosciute

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Poesie, Racconti

Si era risvegliata nuda in un letto di un tizio conosciuto solo il giorno prima. Il rumore delle ferite sotto pelle non accennava a diminuire. Aveva solo voglia di dimenticare. Di bere e dimenticare. Tra qualche minuto avrebbe dovuto trovare l’ennesima scusa per sgattaiolare fuori da un letto, rivestirsi in fretta senza farsi guardare e tornare alla sua vita di sempre. Continuando poi a chiedersi quale fosse “la vita di sempre”. Quella in cui non puoi fidarti di nessuno? Quella in cui è così facile tradire o essere traditi? Quella in cui il sesso è un giocattolo divertente dal non saperne più fare a meno? E lei all’amore ci aveva sempre creduto, lo aveva difeso così tanto dal negare, negare, negare e ancora negare che ci fossero dei problemi nella sua relazione. Ma poi tutto era diventato sin troppo evidente. Fino a sentirai stupida. Così tutto il castello che aveva nel tempo costruito era crollato. E ora, restava solo lei. Voglio restare sola, si disse, mentre silenziosamente scendeva quelle scale sconosciute. Ma forse sola lo era sempre stata, o meglio, era come si era sempre sentita negli ultimi anni, quando lui usciva per tornare alle ore più strane, tornando sempre con scuse via, via sempre più fantasiose. Chiamò un taxi, una volta realizzato che si trovava dall’altra parte della città e che non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo a lavoro. Mentre il mondo scorreva via dal finestrino dell’auto, giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta. Ma sul gruppo WhatsApp delle amiche era appena comparso un messaggio: “aperto nuovo locale, bella gente da conoscere. Chi viene?”
“Io ci sono”, rispose, senza alcun indugio.

Photo by Unsplash

Non c’era alcuna poesia nei suoi occhi

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Poesie, Racconti

Non c’erano più foglie sugli alberi, da guardare cadere.
Come comete silenziose, si erano posate per terra.
Ma non c’era alcuna poesia nei suoi occhi, solo un semplice cinismo. Lo stesso che lo metteva di fronte a una certezza: il tempo passa in fretta.
E che, come lui, passano tante altre cose, come i treni, i momenti, le occasioni. I ricordi.
Si rese conto che restare a osservare quelle foglie non sarebbe servito per riportarle sui rami.
E che non voleva attendere la primavera per vederle rinascere.
Raccolse i pensieri. Indossò il pesante cappotto e uscì in strada.
Aveva scelto cosa fare. Avrebbe comprato un nuovo quaderno. E lì, il tempo lo avrebbe fermato.
Perché quelle foglie, le avrebbe disegnate.

Photo by Unsplash

Ed è stupido soffrirne

Pubblicato il Pubblicato in Narrativa, Pensieri, Poesie, Racconti

Il muro scrostato raccontava di un mondo che non c’era più. Così anche vederla andar via non era stato doloroso come aveva immaginato. L’aveva amata, sì, per tanto tempo. Lei, però, non lo aveva mai scelto, lasciandolo sempre lì sulla porta, ad attendere un giorno che non sarebbe arrivato mai. Così, un giorno, aveva iniziato a togliere la muffa dai muri, a raschiare tanto forte le pareti, da rivedere, strato dopo strato, cosa c’era stato prima. Vernici, carte da parati e poi, alla fine, i mattoni. Aveva capito che una casa non sta in piedi grazie ai colori che indossa. E che quello che gli era sembrato amore, altro non era se non semplice carta da parati. In fondo, si disse, non puoi perdere qualcosa che non hai mai avuto. Ed è tanto più stupido soffrirne. A volte perdere qualcosa è l’unico modo per ritrovarsi, con quei mattoni stanchi, inumiditi, ammiffiti, forse, ma ancora capaci di tenere in piedi ogni cosa. Il treno che l’aveva portata via era partito già da tempo, la sala d’aspetto era ormai deserta. Dalla vetrata vide un bar. Sicuramente dopo un buon caffè avrebbe visto tutto per ciò che era davvero. Un nuovo giorno e un nuovo inizio.

Fuori dalle iridi

Pubblicato il Pubblicato in Articoli, Pensieri, Racconti

I lividi sulle braccia non le facevano male quanto l’umiliazione che si era sedimentata dentro.
Le parole le scivolavano addosso, come gocce silenziose.
E cos’è un insulto, se non un ammasso di lettere, si diceva.
Ma lei non ci credeva davvero.
Lei una felicità voleva viverla davvero.
Lei una via di fuga la pretendeva.
Così chiuse il diario, gettò la penna contro il muro con tutta la sua forza.
E ciò che le restava nell’anima, si guardò allo specchio.
I suoi occhi erano neri, anche fuori dalle iridi.
Promise a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta.
Che non avrebbe più creduto alle scuse, alle promesse, ai sorrisi del giorno dopo.
Forse, non avrebbe amato mai più.
Probabilmente avrebbe imparato a odiare.
Ma sarebbe stato il giusto prezzo, per la libertà.

Photo: Unsplash

Non può che farti bene

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Racconti

Giulia si sentiva sbagliata.
Continuare a guardare quello specchio non le sarebbe servito a nulla.
Lo sapeva bene di essere bella, a confermarlo erano gli sguardi degli altri. Ma sapeva anche di sentirsi troppo lontana da ciò che quelle persone vedevano.
Anche quella notte aveva vomitato.
Ogni notte lasciava affondare il suo segreto in quel cesso. Ormai era una donna, ma quanto ci si può sentire trasparenti nel bel mezzo di un mondo che ha ben altro a cui pensare?
Qualche giorno prima aveva incontrato un ragazzo, era stato simpatico, avvolgente, così strano e differente da quella sfera di regole, convenzioni e pregiudizi in cui non si ritrovava. Le aveva detto “Giú, ti faccio provare una cosa”. Così lei aveva preso dalle sue mani una pastiglia. “Giú, non ti può che fare bene”.
Quella notte avevano ballato per tutto il tempo.
Quella notte non aveva nemmeno vomitato.
Eppure, di fronte a quello specchio, nulla era poi cambiato.
“Giú, stasera ti porto in un posto. Non può che farti bene.”
“Chissà quanto è alto il prezzo di sentirsi sbagliati”.
“Chissà se poi passa”, si chiedeva, mentre tutto attorno girava sempre più forte.
“Chissà se esiste davvero un mondo più giusto”, si domandò.
Ma si sentiva troppo stanca. Anche se, sotto gli occhi di tutti, non poteva permettersi di smettere di ballare.
“Vorrei solo tornare a casa”, si sussurrò.

Il suono di un nome

Pubblicato il Pubblicato in Narrativa, Pensieri, Racconti

Il camioncino aveva portato via le ultime cose.
Lo stabilimento balneare, per come lo ricordava, ormai non esisteva più.
Percorse il tragitto che dall’ingresso conduceva verso la spiaggia.
Dove per decenni c’erano stati i suoi ombrelloni, c’era solo sabbia e l’odore del vento di autunno.
Il vento sembrava quasi riportare il ricordo del vociare dei bambini, degli amori nati e finiti velocemente.
Si voltò verso i vecchi locali prefabbricati, per anni adibiti a cabine e spogliatoi. Le porte in legno, ormai logoro, che avevano visto passare le storie di migliaia di bagnanti.
A ricordarle ciò che stava per diventare passato, una barchetta che riposava a poca distanza dalla battigia.
Suo marito, quella barca, l’aveva amata tanto. A tal punto da assumersi la gestione dello stabilimento, attivitá che lei aveva ereditato da suo padre.
Ben presto quello che sembrava un salto nel buio si era tramutato in un vortice fallimentare. Lui aveva presto litigato con il personale storico dello stabilimento. Si era convinto che sarebbe riuscito a immettere personale giovane e più moderno. Ma i nuovi arrivati non c’entravano niente con quella realtà.
A nulla erano valsi i rimproveri, le minacce di licenziamento.
Dopo due anni, nessuno voleva più lavorare nello stabilimento.
Pian piano i vecchi clienti si erano trasferiti altrove.
Ora si rendeva conto che il silenzio che stava ascoltando, era iniziato molto tempo prima.
La barchetta era immersa nella sabbia, alzata dal vento che proveniva dal mare.
Si chiuse meglio il giubbotto per difendersi dal vento, o forse da quei ricordi, ormai troppo pungenti.
Ripensó a suo padre. A quando da bambina l’aveva lasciata scorrazzare per lo stabilimento. Alle prime esperienze lavorative, quando alla cassa assegnava gli ombrelloni disponibili, sotto l’occhio vigile del nonno, che a sua volta aveva gestito quello stabilimento.
Chissà cosa avrebbe pensato di lei, che aveva lasciato naufragare tutto, così, nel silenzio.
Si chiese se davvero fosse colpa sua. Forse l’errore era stato non vendere prima ai diretti concorrenti.
Forse l’errore era stato amare Carlo, il suo ex marito che un giorno aveva candidamente ammesso di essersi innamorato della signora che dava una mano a pulire lo stabilimento. E che con la stessa serenità aveva comunicato che sarebbe andato a vivere con lei.
Lanciò un ultimo sguardo a quella barchetta, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. Sperando, poi, di ricominciare a vivere.
Il nome della barca era stato quasi del tutto cancellato dalla fiancata. Il nome che suo padre le aveva dato: Romanza.

Photo by Unsplash

Sei un fallito

Pubblicato il Pubblicato in Narrativa, Pensieri, Poesie, Racconti

– Fallito – gli urlava il nuovo compagno di sua madre.
Valerio teneva testa a quell’uomo che puzzava di alcool.

– Non sei capace! Cosa ci vai a fare all’Università? Finirai comunque per andare a raccogliere cartoni. Tanto vale andarci subito e contribuire alle spese! – continuava lui.

Valerio tratteneva la rabbia, la tristezza e l’umiliazione. L’unica strada che aveva per costruirsi una vita era studiare. Ma farlo ogni giorni diventava sempre più difficile. Per frequentare l’Università servivano soldi e tempo. Ma stava per perdere anche l’unico dei punti di cui poteva disporre: la determinazione.
Valerio studiava di notte, mettendoci l’anima. Continuava a dare esami, senza tregua, perché sapeva che gli avrebbe concesso ancora un po’, vincendo una borsa di studio. Quello era l’unico modo per continuare ad alimentare quella che gli sembrava sempre più una stupida illusione.

– Non hai niente da dire? Pensi a quando potrai finalmente progettare cessi? – concluse, ridendo.
Sua madre avrebbe voluto difenderlo, ma non poteva farlo. Perché dipendeva dagli umori di quella bestia.
Valerio aveva sentito più volte nella sua vita cedere il terreno sotto i suoi piedi.

Si alzò e si soffermò a osservare l’immagine della copertina di un libro proiettata sul muro.
Quante volte nella sua vita aveva trovato difficile guardarsi anche solo guardarsi allo specchio senza sentire il peso delle sue sconfitte.

Poggiò una mano, come per sostenersi, sul tavolo che sarebbe servito da lì a breve per un’altra presentazione.

Valerio aveva iniziato a vomitare per sopportare quel senso di buio che sentiva salire ogni volta dall’esofago. Rimettere quel poco che riusciva a mangiare ed era ogni volta come una liberazione. Una forma arcaica di reazione, che però non faceva altro che mandarlo ancora di più al tappeto.

Il momento peggiore, però, era arrivato quando aveva sbagliato il primo esame. Un momento di buio totale che non gli aveva permesso di rispondere nel modo corretto, nonostante avesse studiato e fosse ben più che preparato. Il suo cervello lo aveva abbandonato nel momento in cui ne aveva più bisogno e in quel momento non aveva avuto nemmeno la forza di ammetterlo. Perché avrebbe avuto bisogno di mangiare, di riabilitarsi, di rialzarsi. Ma l’unica necessità che sentiva salire dal suo stomaco era solo una. Continuare a vomitare.

– Possiamo già iniziare a sedersi? – chiese una signora che era appena entrata nella sala.

Valerio la guardò, riprendendosi un attimo dai suoi pensieri.

– Sì, certo. – rispose, osservando altre persone che stavano entrando.

Si allontanò da quel gruppo di persone che man mano stava diventando sempre più numeroso.

– Buongiorno, sono Alessandra, la giornalista. Ci siamo sentiti telefonicamente, lei è Valerio, immagino –

Valerio gettò ancora uno sguardo allo schermo che proiettava un’immagine della copertina di un libro. Si chiamava “Fallito”.

– È pronto a raccontare a tutta questa gente la sua storia? ­–

In quel momento si rese conto che quella copertina rappresentava l’immagine nello specchio in cui finalmente riusciva a guardarsi. Rimandò indietro il magone e quella lacrima che avrebbe voluto uscire.

­ – Direi di sì. Ora sono pronto. –

Ph: Unsplash

Lo schema, il mio racconto di Natale

Pubblicato il Pubblicato in Narrativa, Racconti

L’uomo era appena sbarcato in aeroporto. Recuperato il bagaglio salì sul primo taxi e chiese di essere accompagnato in città. Pagò la corsa, uscì dall’auto e si incamminò sul lungomare. Era la sera di Natale e in giro non c’era nessuno. Percepì un sibilo e di colpo un ragazzino con i capelli biondi gli si parò davanti, fissandolo senza dire una parola. Il suo cuore accelerò. Aveva già visto quello sguardo. Lo vide allontanarsi e dileguarsi in un vicolo oscuro, mentre sentiva dei cani abbaiare in lontananza. Tre mesi prima aveva ricevuto una lettera che lo aveva spinto a fare delle ricerche che lo avevano portato sino alla Biblioteca Nazionale di Helsinky per capire da dove provenisse il suo cognome. L’origine del suo albero genealogico conduceva a una antica città: Myra, in Turchia. L’uomo fissò la facciata della Basilica e si avvicinò al portone. Pensò al significato del suo cognome: il compleanno del Santo. “Signor Sinterklass” disse una voce alle sue spalle. Si voltò e vide un uomo incappucciato. “Chi sei?” rispose. “Non è importante chi sono, ma cosa sto per fare”. In quell’istante Sinterklass vide un bagliore alle spalle dell’uomo incappucciato. I cani sembravano abbaiare sempre più vicino. “Babbo Natale non esiste” tuonò Sinterklass. “Non più” disse l’uomo incappucciato che sfoderò il coltello. Sinterklass sentì il freddo della lama sfiorargli la pelle del petto e in quello stesso istante sentì un frastuono provenire dal vicolo. Un oggetto oscuro trascinato dai cani si abbattè sull’uomo incappucciato che cadde rovinosamente a terra. Un ragazzino biondo porse le redini dei cani che spingevano la slitta. “Sei l’erede” gli disse l’elfo. “Stanotte hai un compito importante” proseguì. In quel momento Sinterklass ripensò alle sue origini, al suo lontano parente le cui reliquie giacevano nella Basilica di San Nicola di Bari. Era lui Babbo Natale, o Santa Claus, il vescovo cristiano che a Myra portava i doni ai bambini poveri con una slitta trainata da cani.

#loschema

Il Tempo del Silenzio – Ep1-2

Pubblicato il Pubblicato in il tempo del silenzio, Narrativa, Racconti

Ep1

Wuhan

L’uomo aveva appena agganciato il camice al porta abiti. Era stanco e provato dal lavoro della giornata. Lavorava in pronto soccorso da circa cinque anni e ogni volta gli sembrava sempre più difficile sopportare il dolore e la sofferenza, soprattutto nei casi in cui non poteva fare niente per alleviarla. Non aveva molto tempo per riflettere, i turni erano sempre molto fitti e aveva soltanto poche ore per riposare. Il mattino sarebbe dovuto tornare in ospedale. Mangiò qualcosa velocemente e si coricò. In quel momento gli tornò in mente il paziente che aveva atteso il suo turno tutto il pomeriggio in sala d’aspetto. Sembrava non avesse motivi seri per essere lì. Eppure a un tratto aveva iniziato a tossire, una tosse secca, un infermiere aveva cercato di aiutarlo, ma in pochi minuti il suo quadro clinico si era aggravato e aveva iniziato ad avere problemi respiratori.

Era morto poche ore più tardi.

Pechino

Il pacco era appena arrivato dal laboratorio. Il corriere era stato veloce. Il tempo era determinante per il progetto a cui stavano lavorando da anni. Jie era un ingegnere di successo, proveniva da una famiglia povera di Pechino, ma grazie alle borsa di studio del governo era riuscito a conquistarsi un ruolo importante in una azienda informatica. Lo sviluppo della tecnologia in Cina era uno dei settori più importanti e le aziende avevano negli ultimi anni mutato la propria identità, da ditte assemblatrici si erano trasformate in aziende in grado di progettare, costruire e produrre oggetti tecnologici sempre più performanti, che rispetto ai competitor potevano contare su una caratteristica in più. Il prezzo. Gli operai non mancavano e il loro attaccamento alle aziende permettevano di investire su di loro, specializzandoli. Gli orari di lavoro a cui erano sottoposti erano devastanti, ma loro erano sempre presenti ed efficienti. Ed erano pagati poco. Pochissimo, in confronto agli stipendi che percepivano operai di quel livello nel mondo occidentale.
Posò il pacco sulla scrivania del suo ufficio e si soffermò a osservare il paesaggio che la vetrata dell’ultimo piano del grattacielo gli offriva. Sempre lo stesso, un grigiore tenue, che soffocava ogni colore. Per un attimo immaginò di vivere in quei luoghi di cui gli avevano raccontato, in Italia, per esempio.

In quello stesso istante il cellulare suonò.

Il cliente era pronto per procedere con l’acquisto del nuovo prodotto ideato e costruito dalla sua azienda. Un cellulare di ultimissima generazione.

Silicon Valley

Jonathan Valasco aveva depositato il brevetto soltanto pochi giorni prima, quella sera aveva in programma di uscire a cena con la giovane collega che era arrivata in azienda da pochi mesi. Aveva appena il tempo di passare da casa per cambiarsi, indossare qualcosa di elegante, ma senza esagerare. Aveva prenotato un tavolo in un prestigioso ristorante già in mattinata.

Quella videochiamata non era prevista. Si trattava del supervisor dell’azienda madre, la ditta che in genere acquistava i brevetti e che aveva permesso alla sua start up di diventare leader nel settore delle comunicazioni.

“Buonasera John, ti disturbo?”

“Assolutamente no.”

“Bravo, ho sempre ammirato chi si dedica con così tanta passione al suo lavoro.”

“Come mai questa chiamata, avevamo una call prevista per il giorno della consegna.”

“È proprio di questo che volevo parlarti. Abbiamo deciso di non acquistare il vostro prodotto.”

Il tempo del silenzio – #Ep1

Ep2

Pechino

Jie aprì il pacco con cura. Posizionó gli imballaggi nell’area adibita alla raccolta e soppesó il piccolo contenitore. Sospirò e rimase un attimo a riflettere. Sapeva che una volta aperto non sarebbe più potuto tornare indietro. Ogni cosa sarebbe stata diversa. E non solo per lui. Indossò i guanti protettivi e lo aprì.

Silicon Valley

Jonathan aveva chiuso la telefonata simulando disinteresse, ma era consapevole che si trattava di un danno enorme per la sua società.
Il telefono continuava a squillare senza sosta. Era Jennifer, la sua collega che aveva invitato a cena. Interruppe la chiamata e spense il telefono. Aveva bisogno di pensare alla prossima mossa. Nel suo mondo non era possibile perdere nemmeno un istante. A ogni bit corrispondevano miliardi di guadagno. O di perdita. E lui non poteva permetterselo.
Si chiese se cercare altri compratori potesse apparire una manovra rischiosa. Aprì una bottiglia di vino italiano, lo versò in un calice e ne sorseggió il contenuto, mentre osservava il profilo dell’oceano. Forse la compagnia di Jennifer gli avrebbe fatto bene, ma non aveva tempo. Era arrivato il tempo di agire. Lasciò il calice sul tavolo e si chiuse nel suo ufficio. Aprì il laptop.

A pochi chilometri di distanza.

Jennifer scagliò il cellulare contro il muro e si ruppe in mille pezzi. Aveva atteso quel momento per molte settimane. Si guardò di sfuggita allo specchio. Aveva indossato un tubino nero aderente che non nascondeva molto.

Wuhan

Il dottor Away aveva inviato un videomessaggio a un suo collega medico che esercitava la professione a Pechino. Gli aveva raccontato del caso di un medico morto per complicazioni respiratorie il giorno prima, ma il suo collega gli aveva detto di non preoccuparsi, che sicuramente si era trattato di un caso isolato. Non era per niente convinto. Si controllò la temperatura corporea. Tutto regolare. Aveva soltanto un po’ di tosse secca. Una patologia assolutamente normale nel periodo invernale.

Pechino

Jie posò il microprocessore sul piano di lavoro e puntò la luce per osservarlo meglio. Si sentiva soddisfatto. Quell’oggetto rappresentava il duro lavoro degli ultimi anni. Per completare quel momento mancava soltanto un passaggio. Inserire il processore nella scheda madre di supporto e collegarla a un computer molto, molto, potente. Ma per quel momento avrebbe dovuto attendere. Un messaggio del suo capo era appena comparso sul display del cellulare. Era prevista una riunione imprevista e importante. La convocazione era imminente.

Photo by Unsplash

#Labirinto – #Ep10

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, #LMDS, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio, Racconti

Fabio sentiva la mancanza dell’aria. Ma non era l’unica cosa che riusciva a percepire. Sentiva l’avvicinarsi della paura, il fattore scatenante di un’altra crisi. Ogni passo lo immergeva sempre di più nel buio. Il tunnel sembrava non finire mai. All’inizio Fabio aveva creduto fosse la soluzione migliore e probabilmente era così, perché in quel momento sicuramente il bosco in cui si era nascosto era stato dato alle fiamme e quel tunnel rappresentava la sua unica salvezza. Cercava di non voltarsi, di mantenere uno stato di calma, anche se sentiva un rumore sordo provenire dal luogo da cui era scappato. Sembrava il suono di un fiume in piena. Che si avvicinava velocemente. Ma non aveva tempo per riflettere, la sindrome dello spettro autistico di cui soffriva era come una bomba a orologeria per lui in quella situazione di stress. Il rumore sordo aumentava istante dopo istante, fino ad assomigliare sempre di un più a un rombo assordante. Iniziò a correre, ma sapeva di essere troppo lento, perché doveva orientarsi nel buio a tentoni. Il rombo era fortissimo, di qualsiasi cosa si trattasse lo stava per raggiungere. All’improvviso colpì qualcosa che non gli permise di proseguire la corsa. Il tunnel terminava con un muro. Dall’alto vide il riflesso di una luce, che illuminò una scaletta arrugginita. La vide un attimo prima che un fiume in piena raggiungesse il punto in cui si trovava. Dall’altra parte del tunnel i suoi inseguitori aveva deviato corso d’acqua che attraversava il bosco. 

Davide stava per svegliarsi. Il primario aveva dato istruzione sul blocco dei macchinari che lo tenevano in vita. 

L’impero aveva completato l’operazione di ricondizionamento degli equilibri politici dei principali stati con elezioni pilotate e aveva dato mandato di arrestare tutti i soggetti che risultavano immuni all’influenza della Macchina del Silenzio. 

Simona era stata arrestata e con lei gli scagnozzi che l’avevano rapita.

Anche Monica era stata arrestata mentre stava cercando di scappare all’estero.

Il mandato di arresto venne diramato anche anche per Davide, ma era stato sospeso poiché la sua condanna era già stata emessa. Sarebbe morto a breve.

Fabio riapri gli occhi lentamente, cercò di muovere le articolazioni, che continuavano a fargli male. Si guardò intorno, era solo. Si ricordò in quell’istante di essere riuscito ad allontanarsi dal tunnel pochi istanti prima che l’ondata di piena lo strascinasse via.

Cercò nella sua memoria quale fosse il passo successivo da fare. La sua memoria era fenomenale come magazzino di informazioni, da qualche parte era sicuro di poter ritrovare l’immagine la mappa della città. Si ricordò perfettamente la strada per raggiungere l’ospedale in cui si trovava Davide. Era lo stesso che aveva visto nel gioco Second Life.

Si avvicinò il più possibile all’ospedale. Nessuno aveva dato troppa importanza alla sua presenza, nemmeno quelle che sembravano essere delle guardie.

Si soffermò a guardare le planimetrie del piano di emergenza del fabbricato che erano appese a uno dei muri. Attese che attorno a lui ci fosse un momento in cui il personale fosse ridotto al minimo nell’area della reception dell’ospedale e riuscì a sgattaiolare dall’altra parte del bancone e ad accedere a uno dei computer. Un’impiegata era impegnata in quel momento a dare indicazioni al parente di un paziente. Aveva solo pochissimi secondi per interrogare il database dei ricoverati nella struttura. Soltanto per una stanza non era indicato il nome del degente. Era un’informazione più che sufficiente. 

Si avviò verso le scale e salì al terzo piano. Vide alcune guardie stazionare nel corridoio. 

Sentì alcuni dottori parlare. Capì che stavano pianificando lo spegnimento dei macchinari di un degente. Il sangue gli si gelò nelle vene.

Si avvicinò alla stanza in cui immaginò di potesse trovare Davide e aprì la porta lentamente. 

Non si era sbagliato, vide un uomo con il volto pallido, magro, che attendeva il proprio momento sul letto anonimo dell’ospedale, privo di conoscenza.

Sentì dei rumori provenienti dall’esterno della stanza, immaginò che mancasse poco all’inizio della procedura di spegnimento dei macchinari. Si nascose dietro un armadio nel momento in cui sentì aprirsi la porta. Sentì le voci degli infermieri che sistemavano le flebo e che ragionavano sulle ultime valutazioni del caso. 

Fabio sentì crescere la voglia di piangere. Avrebbe voluto riuscire a parlare, chiedere di fermarsi, urlare, semmai, chiedere aiuto. Ma non riusciva a fare niente di tutto questo. Dentro di lui sapeva che lo avrebbe portato via e non poteva permetterlo. Gli tornò in mente uno dei discorsi che la sua mamma gli aveva fatto, ricordava le sue raccomandazioni, i suoi discorsi sul futuro, su quanto sarebbe stato bello. La sua promessa che avrebbero sempre parlato, per ore e ore, di tutto. Ma lui a parlare non ci era mai riuscito e non riusciva a dimenticare le espressioni della sua mamma, quella delusione che emergeva, latente, quando c’erano attorno altre famiglie, altre mamme che parlavano e ridevano con i propri figli. Quell’espressione di chi sapeva che a lei non sarebbe mai successo. Ricordava tutte le volte che l’aveva sentita piangere, da sola. 

Avrebbe voluto piangere anche lui in quel momento. Ma si trattenne e riuscì a non farlo.

Rimase in attesa. Si accorse che gli infermieri erano usciti momentaneamente dalla stanza. Si avvicinò al letto di Davide e iniziò a scuotergli il braccio. Non vide nessuna reazione. L’uomo sembrava lontano. Sapeva che nel gioco era riuscito a parlarci e in quel momento gli era sembrato vigile. 

Avrebbe voluto essere in grado di parlargli, ma era prigioniero della malattia che gli avevano diagnosticato. Stava per andar via, mesto, quando la sua mano sfiorò quella di Davide e sentì un timido movimento di quel corpo.