É inutile 

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​Ricordo bene le parole di alcuni parenti.

Lascia stare.

É inutile.

Non porta a niente.

Fai cose più utili.

Ricordo il mio sguardo perso nel vuoto.

L’inchiostro.

Il fruscio della penna sul foglio.

Il bene e il mare dentro.

Il male contro il male.

La rabbia.

Tutto è iniziato cosí.

Ma le parole a cui voglio credere,

sono solo le mie.

L’alta marea

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É sempre più difficile. 

L’alta marea colpisce all’improvviso.

Ma in fondo è sempre colpa della luna piena.

Le mani sono stanche,

di cercare ragioni.

Nelle stanze c’è silenzio.

É ancora presto.

Il viso, lo specchio oltre il mare.

Ed é così che me ne rendo conto:

continuando a sognare.

Ma é sempre più difficile.

L’attesa 

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Ho pensato alla pioggia, alle incessanti gocce che riportano la vita. Come lacrime che spostano il dolore più in là, la rabbia oltre il confine tra pace e terra. Le luci stroboscopiche di una fuga in levare. Alzare gli occhi e prendere il tempo. Un ritmo incessante, un lampo oltre il paesaggio conosciuto. Tutto sembra diverso, nel momento stesso in cui cambia la scena. Dietro alle quinte c’è un mondo fatto di sfumature nuove. L’attesa del primo passo, quello che porta oltre le tende rosse. Quella lieve paura che porta il coraggio a nascondersi. E poi c’è quella sensazione che torna all’improvviso. Quella che porta a fare il secondo passo. E il terzo. Tutto diventa naturale, come la pioggia.

Io

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Io, vivevo di sogni. Quando poco più e poco meno di adolescente costruivo dei mondi che assomigliavano alle mie idee. Ed erano tempi duri, quelli. Si veniva discriminati per poco: perché si era timidi, perché i propri genitori erano separati, perché preferivi la musica al calcio. Perché, perché, perché?. Una parola che racchiude tanti significati. Ed era la domanda che più spesso mi ponevo. Oggi tutto è più veloce, anche le parole. Che forse fanno più male. Proiettili impazziti che crivellano le anime di ragazzi che sembrano non avere più armi, persi nel display di un cellulare. A quei tempi l’unico modo per urlare, era scrivere. I primi temi facevano venire il classico groppo in gola, a me, per primo. Poi quell’onda d’urto arrivava agli altri. Ma il primo a farsi male ero sempre io. L’autore e carnefice. Ieri sera ho riprovato quella stessa sensazione quando mia moglie Anna ha letto al suo pubblico il mio racconto “La Bambola”. Mi è sembrato di ripercorrere il film all’indietro, come su una macchina del tempo. Di rivedere ogni sfumatura di una storia che mi ha portato fino a qui. Forse un giorno avrò il coraggio anche io di leggere quel racconto, per ora non ci riesco ancora. Così, oggi come allora, lascio che siano le parole a raccontare quella storia. In momenti come questo mi rendo conto di quanto la scrittura mi abbia aiutato. Di come la velocità delle parole sia diventata un limite, mentre dovrebbe, e potrebbe, essere un’arma per difendersi, per ritrovarsi. Vorrei poterlo raccontare ai ragazzi più giovani, quelli più fragili, che si sentono esclusi, discriminati, impauriti da un branco che vuole annientarli. Chissà che qualcuno di loro possa scoprire che quella rabbia, delusione, paura può diventare uno scudo, delle solide mura dentro quali costruire mondo che sono idee. E chissà che un giorno possano guardarsi anche loro allo specchio e dire: io, vivo di sogni. Ancora oggi.

Con noi

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Cambi di prospettive, luci fuori posto. Le inquadrature sfumate. Nel giorno immerso nel fumo, brucia la genesi del tempo. E la paura svanisce, negli attimi sospesi tra una nota e l’altra. C’è un’aria sbagliata, così come le strade che scegliamo di non percorrere. Cambi di prospettive, perché la vita cambia. Come noi. Con noi.

Il caso

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Pedine, mosse a caso. Sul tavolo verde, dei giorni che ruotano. Immagini messe al muro, nella stanza che si rispecchia nel cemento.
La fedina letale, di un sorso di vita. Le dita, puntate.
Il gioco è strafatto, di note deviate.
Ai bordi di una periferia, che racconta storie, imbevute di caffè bollente.
Vincere, perdere, nel brodo primordiale della di muovere le dita.
Spostare la pedina.
E fare la seconda mossa.

La magia

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Smascherate, le incertezze. Quando si sale sul palco, si è nudi. Il peso dei ricordi. E degli errori. Guardarsi allo specchio, nell’occhio critico di chi non ti guarda. Cercare un volto, in mezzo al buio di una platea. Quella strana forma di solitudine, che si mostra quando il primo riflettore si accende. E la maschera cade. La magia di sentirsi un attore, poco prima di essere se stessi.

Nebbia lieve

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Cambiano le rotte. Le lenti tese a mettere a fuoco il tempo. Ma la sabbia corre, sulla superficie liscia della pelle. La luna si nasconde. E stanotte fa troppo freddo. Vedo una luce nel buio, ma sono i miei incubi. Una nebbia lieve colora l’orizzonte di stelle. E resta il suono del vento, a disegnare una trama chd non posso leggere. Léggere sono le vele che cercano un sospiro, un respiro, una parola. Ed è lì che me ne accorgo. E, finalmente, viro.