Io, vivevo di sogni

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Io, vivevo di sogni. Quando poco più e poco meno di adolescente costruivo dei mondi che assomigliavano alle mie idee. Ed erano tempi duri, quelli. Si veniva discriminati per poco: perché si era timidi, perché i propri genitori erano separati, perché preferivi la musica al calcio. Perché, perché, perché?. Una parola che racchiude tanti significati. Ed era la domanda che più spesso mi ponevo. Oggi tutto è più veloce, anche le parole. Che forse fanno più male. Proiettili impazziti che crivellano le anime di ragazzi che sembrano non avere più armi, persi nel display di un cellulare. A quei tempi l’unico modo per urlare, era scrivere. I primi temi facevano venire il classico groppo in gola, a me, per primo. Poi quell’onda d’urto arrivava agli altri. Ma il primo a farsi male ero sempre io. L’autore e carnefice. Ieri sera ho riprovato quella stessa sensazione quando mia moglie Anna ha letto al suo pubblico il mio racconto “La Bambola”. Mi è sembrato di ripercorrere il film all’indietro, come su una macchina del tempo. Di rivedere ogni sfumatura di una storia che mi ha portato fino a qui. Forse un giorno avrò il coraggio anche io di leggere quel racconto, per ora non ci riesco ancora. Così, oggi come allora, lascio che siano le parole a raccontare quella storia. In momenti come questo mi rendo conto di quanto la scrittura mi abbia aiutato. Di come la velocità delle parole sia diventata un limite, mentre dovrebbe, e potrebbe, essere un’arma per difendersi, per ritrovarsi. Vorrei poterlo raccontare ai ragazzi più giovani, quelli più fragili, che si sentono esclusi, discriminati, impauriti da un branco che vuole annientarli. Chissà che qualcuno di loro possa scoprire che quella rabbia, delusione, paura può diventare uno scudo, delle solide mura dentro quali costruire mondo che sono idee. E chissà che un giorno possano guardarsi anche loro allo specchio e dire: io, vivo di sogni. Ancora oggi.

Hashtag

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Quando vedo comparire su twitter l’hashtag di una città, torna a farsi sentire l’inquietudine. Quella strana consapevolezza che viviamo in un’epoca strana, che ti fa pensare: no, lì non ci vado “perché c’è il terrorismo”. Ma dentro di te sai che è ovunque. Spesso mi chiedono perché io abbia scritto storie in cui emerge la ferocia dell’essere umano e in particolar modo il suo lato oscuro. Perché quella parte dell’uomo esiste, semplicemente. Io credo che la realtà vada osservata bene, per provare a capirla. Io, che ho amato da sempre la storia, ho iniziato a farlo confrontando diversi periodi storici e cercando le similitudini, i luoghi di contatto, le motrici degli eventi e i punti scatenanti. Il disegno che c’è alla base. Ma la realtà a volte supera la fantasia o semplicemente la mette in scena, come uno spettacolo a teatro. Così quando vedo comparire il nome di una città tra gli hashtag, rispondo all’inquietudine nel modo che meglio conosco. Approfondendo. Provando a capire quello che sta succedendo. Senza necessariamente cedere al panico, ai giudizi facili, senza inneggiare a quella o a un’altra parte. Credo nella libertà. Perché altrove i libri vengono bruciati. E quello sí, mi fa paura.

Ho pensato alla pioggia

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Ho pensato alla pioggia, alle incessanti gocce che riportano la vita. Come lacrime che spostano il dolore più in là, la rabbia oltre il confine tra pace e terra. Le luci stroboscopiche di una fuga in levare. Alzare gli occhi e prendere il tempo. Un ritmo incessante, un lampo oltre il paesaggio conosciuto. Tutto sembra diverso, nel momento stesso in cui cambia la scena. Dietro alle quinte c’è un mondo fatto di sfumature nuove. L’attesa del primo passo, quello che porta oltre le tende rosse. Quella lieve paura che porta il coraggio a nascondersi. E poi c’è quella sensazione che torna all’improvviso. Quella che porta a fare il secondo passo. E il terzo. Tutto diventa naturale, come la pioggia.

 

Inchiostro

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Ricordo bene le parole di alcuni parenti.
Lascia stare.
É inutile.
Non porta a niente.
Fai cose più utili.
Ricordo il mio sguardo perso nel vuoto.
L’inchiostro.
Il fruscio della penna sul foglio.
Il bene e il mare dentro.
Il male contro il male.
La rabbia.
Tutto è iniziato cosí.
Ma le parole a cui voglio credere,
sono solo le mie.

Promemoria

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Promemoria.
Della memoria che manca.
Luce soffusa.
Parole troppo calde.
E innescare un discorso,
ma è tardi.
E forse ho paura.
Un biglietto del treno.
L’odore del treno.
Ogni cosa evoca,
senza ricordare.
L’ora d’aria.
Fuori dai confini,
disegnati da un bambino.
Un rumore lento.
Binari.
Scambi.
Volti.
Luoghi improvvisati,
poco prima della stazione.

Gelido

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É un vento gelido,
quello che mi fa perdere l’equilibrio.
La dinamica dell’istante perfetto.
Il passo più lento,
per ritrovare il ritmo dei propri pensieri.
Guardare da lontano la scena.
Osservare gli sguardi degli attori.
Sentire il tessuto delle sedie in platea.
Vedo un mondo sanguinario,
chiuso tra quelle pareti.
Mentre io amo il vento.
Anche quando è gelido.

La giusta distanza

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Dalla giusta distanza,
la dimensione del mondo.
L’essenza e l’odore.
In fondo, alla stanza.
L’eco di una voce,
la necessità di urlare.
L’assenza e il sapore.
Demoni, vestiti di bianco.
Angeli, svestiti di anima.
Non esiste distanza,
né tempo.
Il mondo è relativo.
Come noi stessi.

Mi ero perso

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Mi ero perso.
Perché scrivere ti porta altrove.
E, alla fine, ci credi.
Che quel ruolo ti spetti.
Resti solo.
Con le mani strette sul volante.
E davanti, un teatro buio. Senza riflettori.
E la puoi toccare, la solitudine.
Ma è un vuoto apparente.
Apparire, ti può far sparire.
La pioggia sul parabrezza.
Fermo a un lato della strada.
Il mio sguardo nello specchietto.
Un dolore nel petto.
E l’ho capito allora.
Che mi ero perso.

La beata ignoranza di un menestrello 

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La mia non è poesia, né narrativa. Non è racconto, prosa, beata ignoranza di un menestrello. Non è alibi perfetto per chi spaccia rabbia. Anima astuta e veleno. Non è  parola, né mestiere. Storia lasciata a macerare, perché l’emozione sopravviva. Non l’inganno che ti fa voltare pagina. L’incanto di una donna, che muore per sentirsi viva. Lo svelare l’arcano, il piano oscuro, dietro le quinte di un tradimento. Non è il rimpianto. Il mio è un travestimento, che mi arma da carnefice, con la favola candida di un bambino. La mia non è poesia, né la mia natura schiva. Ma sono io, immerso nelle mie sfumature d’avanspettacolo.