Categoria: Pensieri
Second Life – Lo spinoff de #LaMacchinadelSilenzio
Torino
«L’alluvione ha trascinato via tutto. È rimasto solo questo» esclamò l’addetto mandato dall’università mentre mostrava un locale angusto, con le pareti in calcestruzzo e i mattoni marci.
La ragazza iniziò a passeggiare in quell’ambiente dimenticato da dio, posando lo sguardo qua e là sul fango secco che sembrava aver pietrificato ogni cosa. Raggiunse l’ultima stanza del bunker. Posò la mano su un’insegna semicoperta dal fango e dalla polvere e la mosse per rimuovere parte del detrito.
Termine centrale Idro2 – Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario – Monte dei Cappuccini
«Là in fondo abbiamo accatastato i pochi materiali che sono stati ritrovati» asserì l’addetto indicando un cumulo di immondizia infangata.
La ragazza raggiunse le macerie e osservò i vari oggetti. «Vorrei portare via quello» esclamò puntando il dito su una scatola grigia.
«Guardi, credo si tratti solo di un vecchio hard disk. Sarà ormai rovinato e non più utilizzabile».
«Non si preoccupi. Devo firmare qualcosa?».
«Sì. Questo documento» rispose porgendole un foglio. «Lei è?».
«Dottoressa Simona De Carli».
Luogo imprecisato
La donna aveva acceso il computer nella sua stanza e aveva il forte desiderio di riaprire l’applicazione a cui era stata molto affezionata. Mancavano ancora pochi minuti prima che la sveglia tornasse a suonare ricordandole che doveva correre al lavoro. Ma voleva riportare in vita il suo vecchio avatar. Sul monitor vide ricomparire gli scenari che tanto aveva amato quando quel programma era sulla cresta dell’onda e che sembrava potesse e dovesse sostituire la vita reale: Second Life.
Lasciò che il suo avatar camminasse per le vie deserte di una città immaginaria. Un tempo quei luoghi erano popolati da altri avatar, ognuno dei quali esprimeva i desideri e le aspettative dei diversi utenti collegati da tutto il mondo. Aveva riaperto il programma per caso, voleva capire se funzionasse ancora.
Vide muoversi qualcosa in fondo alla via. Pensò che forse qualcuno potesse esserci ancora. Digitò alcuni codici sulla tastiera e il suo avatar iniziò a correre in direzione del punto in cui aveva percepito il movimento. Come in tutti i programmi di quel genere, l’avatar aveva bisogno di essere alimentato perché potesse vivere e restava un’autonomia limitata prima che perdesse i sensi. La donna non se ne preoccupò. Vide ciò che l’avatar aveva di fronte e urlò. Istintivamente. Davanti a lei c’era un uomo riverso in terra, con la fronte coperta di sangue. Avvertì dei rumori alle spalle. Fece voltare l’avatar. E rimase senza parole quando il fendente la colpì al petto. Di scatto si allontanò dalla tastiera, portandosi le mani sul cuore. Vide l’avatar cadere al suolo e mostrare solo il cielo posticcio e il viso dell’uomo che l’aveva accoltellata per pochi istanti, prima che l’autonomia terminasse del tutto. Portò la mano verso il pulsante di spegnimento del computer, ma iniziava a vedere sfocato. Non riusciva a togliere la mano che era rimasta posizionata sul cuore. Iniziò a sentire che tra le dita c’era qualcosa di umido. La camera era in penombra, non riusciva a vedere bene, la luce rossastra proveniente dal monitor non le permise di capire subito che quello che aveva tra le dita era sangue.
Iniziò a respirare sempre più affannosamente, mentre il cuore sembrava sul punto di scoppiare da un momento all’altro. Il sangue iniziò a sgorgare e quei pochi istanti le sembrarono lunghissimi. E proprio nell’istante in cui moriva, fu sicura di aver visto un’ombra materializzarsi in casa sua. Ma non aveva più le forze per parlare. Tutto diventò buio. E riuscì solo a percepire il suono di una risata.
pubblicato su: http://www.lesflaneursedizioni.it/blog/daniele-mosca
Distorto
Chitarre distorte, come alibi perfetti.
Razionali e confortevoli, come scuse tardive.
Una musica troppo forte, che spacca i timpani e stordisce. Ed è forse quello che serve, quando lassù c’è una luna fin troppo grande. Alle porte della città, infuria la guerra. Ma siamo distratti, dalla nostra immagine. Riflessi suo specchio frantumato, dai colpi di mortaio. C’era tanta strada da fare, per dimenticare le svastiche. Ma siamo rimasti fermi, a guardarci. Soltanto fuori.
Raccogliendo il silenzio
Quanti ricordi, appesi qua e là.
Quante cose che potevano diventare.
Istanti, cercati in ogni luogo.
Ma la vita è un treno in corsa.
E fuori, vedo scendere la neve.
Lei, che copre ogni cosa.
Raccogliendo il silenzio.
Ovattato.
Feroce.
E mentre mi sento scorrere,
la sento.
La neve, mi nasconde.
E quanti ricordi, dentro di me.
Quante cose, potevo diventare.
Ma la vita è un treno. E ha corso.
Lasciando alle spalle tutto.
Paesaggi.
Delusioni.
Stazioni così fredde, da gelare il cuore.
Smetterà di nevicare.
Torneranno il sole, la luna, così come i ricordi.
E so di avere tutto quello che ho sempre cercato.
Impercettibilmente
Credo alle poesie che non sono mai state critte. Dalle mani stanche di chi la notte non può pensare. E raccoglie vite per strada. Dalle parole stanche di chi non ha più la forza per farlo. Dalle gambe tese perché è più importante scappare. Perché non è vero che il colore non conta. Di chi guarda un foglio bianco, i cui occhi sono immersi in un nuovo livido. E ha paura. Perché non è vero che si può sempre dire tutto quello che pensi. Di chi dorme. Ed é già molto, quando fuori riecheggiano boati. Di chi si é perso. Di chi fissa un muro, stringendo tra le mani un foglio, che sembra una condanna. Credo alle poesie, che solo gli occhi possono raccontare. Quando si abbassano, impercettibilmente.
Lo spettacolo è qui
Lo spettacolo è qui. Nelle parole sussurrate. Nelle battaglie che combatti fino all’ultimo. E che ti fanno vivere, anche se non le hai davvero vinte. Nelle luci degli occhi accesi. Nel guardarsi attorno e capire che si é camminato tanto. E forse per questo, a volte, si è stanchi. Lo spettacolo è qui. Nei giorni che costruiscono una storia. Un mondo, di vetro. Perché devi sempre nascondere quello che hai dentro. Il sipario sono il veleno. I riflettori, la speranza. In quel buio, tra gli spalti, c’è la tua vita. Ferma per un attimo. L’attimo di silenzio che precede lo spettacolo è una vita intera. Un treno che corre veloce oltre la stazione. Lo spettacolo è qui. Nei miei occhi, nei tuoi.
Ero solo un bambino
Ero solo bambino. Guardavo quei dipinti appesi al muro. Affascinato, come solo un bambino sa esserlo. In quegli anni iniziavo a capire che si può fare anche quello che ti dicono di non fare. A quei tempi, dipingere era considerata solo una perdita di tempo. E, forse, è ancora così. Il coraggio che aveva mia madre di sfidare quei preconcetti mi spinse a scrivere. Ma per molti anni quel coraggio, io, non l’ho avuto. Così, ho nascosto parole su parole. Nel frattempo la vita attorno a me cambiava. Io, cambiavo. Costruendo muri spogli e castelli armati nei quali accrescere il mio cinismo. Ora so che quelle parole sono ancora chiuse in quel cassetto. A volte credo di averle dimenticate. Ma non è così. Vorrei solo avere il coraggio di aprire quel cassetto, capire che non sono più quel bambino. E che a quei dipinti ora posso dare una voce.
La sedia abbandonata
Schemi logici,
una sedia abbandonata.
A se stessa,
era la frase scritta
sul muro spogliato.
Dalla pioggia.
Luci e ombre,
perché la sera arriva.
Presto, quando è inverno.
Sento i passi.
Il silenzio, fa rumore.
Parole fragili,
di una notte.
Come tante.
L’uomo che si fa chiamare uomo
L’uomo che si fa chiamare uomo.
Costruisce prigioni, senza sbarre.
Toglie la vita dagli occhi,
confinandoli nei lividi.
Coglie nel segno, sin sotto la pelle.
Perché la ferita è il gioco sottile.
L’uomo che si fa chiamare uomo.
È l’abile attore, che sa fingersi vittima.
È il vile carnefice dalla lacrima facile.
La sinfonia venuta male.
La mano pesante, su una scusa leggera.
Ma tu non spegnerli i tuoi occhi.
L’uomo che si fa chiamare uomo
Dentro di loro leggerà di non esserlo.
Cambi di prospettiva
Cambi di prospettive, luci fuori posto. Le inquadrature sfumate. Nel giorno immerso nel fumo, brucia la genesi del tempo. E la paura svanisce, negli attimi sospesi tra una nota e l’altra. C’è un’aria sbagliata, così come le strade che scegliamo di non percorrere. Cambi di prospettive, perché la vita cambia. Come noi. Con noi.