Dal finestrino

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Un treno viaggia solitario sul pendio desolato di un desiderio. A bordo, una ragazza. Con gli occhi ancora sporchi di lacrime e fissi sulla copertina di un libro, abbandonato sul sedile della sala d’aspetto di una stazione. Fuori dal finestrino, soltanto neve. E qualche goccia che scivola lungo il vetro. Un giorno le avrebbero chiesto il biglietto, perché la vita, prima o poi, lo fa. La ragazza solleva la mano, la porta sul vetro. Inizia a togliere la condensa. Dentro di lei, qualcosa si muove. Da quanto aveva dimenticato di averlo ancora, un cuore. Oltre la vallata vede comparire qualcosa, ben oltre la neve. Una macchia che si allarga, così come i battiti. Sulla copertina di quel libro c’era un viso, forse il suo. Ma quel libro era volato via per sempre e davanti a lei c’era il mare.

Dimmelo ancora

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Lasciami qui a dormire. Il sogno passerà. Lo stomaco smetterá di bruciare. E lo so che non serve, sognare. Me lo dici sempre. E io guardavo le stesse nuvole dipinte sul cielo, perché era lì che sentivo arrivare le parole. Strette al cuore, come demoni pronti a sbranare. Lasciami sedurre un istante rubato, perché prenda fuoco la voglia di cambiare un finale. Con la malinconia, ci parlavo. E sapeva sempre tutto di me. Chissà se qualcuno può capirlo, che era un’amica. Trattenevo le lacrime, perché piangere non serve. E vorrei me lo dicessi ancora. C’è un tempo per tutto, anche per tornare a sognare. Perché non è vero che non serve a niente. Altrimenti a che servirebbe dormire, se non a perdersi in un buio senza vie d’uscita. Quindi, dimmelo ancora.  

Se non fa male, non serve

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Un racconto è un racconto. Con le sfumature ed emozioni sanguinarie. Se non fa male, non serve. Lo fanno anche le favole, da tempi immemorabili. Nell’era della cultura da aperitivo e Open Bar sfugge sempre qualcosa. Parole come “aggiungimi” o “ti taggo” hanno presto il posto di un “ti aspetto” o di un numero scritto da anime senza nome sulle porte del cesso di un Autogrill. Bruciamo le emozioni a bordo strada, per quell’attimo di consenso. E cosa resta di noi, in tutto questo, se non quel senso di vuoto. Ci portiamo al limite, ci tiriamo a lustro, ci incantiamo, ci incateniamo, per non sentire che tutto scorre troppo in fretta. Che le parole vengono inghiottite da bacheche fameliche. Stamattina fa troppo freddo. E a scrivere mi si gelano le dita. Ma un racconto è un racconto. E deve far male, per me scrivere è questo. Sia davanti a me ci sia gente pronta ad ascoltarmi, o che solo al bordo di una banchina della stazione. Mentre scrivo sulla neve fresca “ti aspetto”. La scritta svanirá presto, ma io sono tutto questo. Sono quelle parole scritte su una panchina, su un muro di periferia, sulle porte del cesso di un Autogrill.

Su una tela di neve

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Le notti disegnano tratti a carboncino su una tela di neve. Piccole luci appese a un cielo troppo grande. E poi c’è lei, quel viso in attesa di una sorpresa. L’incanto segreto, il veto incrociato. Quando le rime non servono, è bello anche solo guardarsi negli occhi. Godersi la notte. E imparare a disegnare a carboncino, su una tela di neve.

Ai miei silenzi

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Taglierò in due parole, in spazi uguali. E tempi perfetti. Il giorno insegue il giorno. E al calar del sole, la notte cerca se stessa. Così, taglierò in due le parole, perché il significato si perda, nel vento e oltre. E parlerò ai miei silenzi.

All’inizio e alla fine

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E così siamo arrivati agli auguri di fine e inizio anno. Come sempre è anche occasione per fare bilanci e per immaginare nuovi propositi, tipo fare un po’ di dieta (tanto sta cazzata la state pensando un po’ tutti). Il 2017 è stato un anno importante in cui sono accadute diverse cose. Matrimonio, prima di tutto. Un altro anno di esperienza lavorativa nel campo che ho sempre amato. E per quanto concerne gli aspetti più artistici, la pubblicazione del secondo romanzo. Spesso vi annoio con le mie considerazioni e polemiche, ma questo non vuol dire che non si continui a lavorare per realizzare sempre nuove cose. Questo nonostante gli ostacoli e le difficoltà che inevitabilmente si presentano lungo il cammino. Un pensiero va a tutti quelli che mi stanno accanto e credono in tutto quel che faccio, ma anche a chi non ci crede, perché le critiche danno ancora più carica per continuare. A loro modo, anche i detrattori hanno una qualche utilità. Per il futuro continuerò a lavorare a nuovi progetti, sia sul lavoro che nella vita privata, per i romanzi, inutile dirlo, molto dipenderà da voi, perché scrivere non è sempre un gioco, perché alla fiducia che mi è stata data deve corrispondere un risultato importante. E posso assicurarvi che la salita è molto, ms molto, dura. Tuttavia, la determinazione non manca. Concludo augurando a tutti un #buon2018 e un felice anno nuovo! 

#buonanno

“Non hai proprio un cazzo da fare, eh?”

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“Non hai proprio un cazzo da fare, eh?”. Questa è la tipica frase che viene posta a un autore emergente che si appresta a parlare del proprio romanzo ai propri conoscenti. Capite bene che entusiasmo e autostima subiscono così un grosso colpo. Soprattutto se hai impegnato negli ultimi anni le tue notti a costruire trame e personaggi. Questo perché il sedicente autore di giorno lavora, fa un’altra vita, proprio come superman, ma senza quell’orrenda tutina attillata. E soprattutto senza i superpoteri, semmai con un grandissimo sonno arretrato. Lo so bene che sarebbe più bello e utile raccontare quanto sia bello scrivere, perché, diciamolo, scrivere è il momento più bello. Quelli in cui si è più se stessi. Poi la propria storia inizia un lungo viaggio, spesso tormentato. Un viaggio in cui l’autore svolge il ruolo di un inesperto Virgilio. Così ci si ritrova un giorno a guardare la propria immagine in una vetrina di Intimissimi (e lo so, siamo tutti uguali). Ci si scopre un po’ più scoloriti. Domande introspettive, autoanalisi, per poi capire che a mancare sono gli ideali che ti avevano da sempre contraddistinto. Certi mondi ti svuotano, lasciandoti in un involucro in cui non ti riconosci più. Stanco. E disilluso. E sia ben inteso, non sono i risultati il problema, perché le battaglie a quelli come me piacciono, ma aver intravisto nella solita vetrina di Intimissimi le facce alle proprie spalle. E solo in quel preciso istante averne capito le intenzioni. Scrivo perché per me è respirare. E se devo essere sincero mi importa poco niente del parere di blogger improvvisati, pseudo operatori di settore con i titoli stampati alla copisteria di fronte casa, filosofi da bar sport, quindi “sì, ho molto da fare, amo il mio lavoro, ma anche vedere le facce così buffe alle mie spalle, così piene di sé da non riuscire a vedersi davvero per ciò che sono davvero. Forse quando mi vedrò così vuoto, forse deciderò di fare un passo indietro. Per ora, seppur stanco e provato, continuo a recitare la parte che mi viene meglio. Essere me stesso.

Nuovo estratto da #LaMacchinadelSilenzio

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Vienna

Davide si guardò intorno, poi lanciò uno sguardo privo di stupore alla facciata del palazzo della Secessione. La cupola d’oro era opera di Gustav Klimt; tutto il resto gli sembrava semplice e spartano. Salì i gradini che portavano verso l’ingresso dell’edificio per poter osservare la zona da un punto di vista differente. L’orario stabilito era passato da ben due minuti, ma nessuno lo aveva avvicinato. Attorno a lui c’erano soltanto turisti intenti a guardare improbabili planimetrie di quel palazzo. Per un attimo gli era parso di scorgere lo sguardo di un uomo in lontananza, oltre la strada. Cercò di mettere a fuoco l’immagine, ma la sua attenzione fu catturata dagli alberelli che troneggiavano accanto alla scalinata. Proprio in uno dei due enormi vasi ornamentali vide qualcosa. Si avvicinò ostentando disinvoltura e la raccolse. Era una semplice busta gialla senza alcuna scritta. Si guardò intorno ancora una volta e l’aprì. Ma all’interno c’era una fotografia. In quel momento sentì una forte fitta alla testa. Un dolore lancinante che negli ultimi anni non aveva fatto altro che aumentare d’intensità. Un’immagine si materializzò nella sua mente: un volto biancastro che spuntava da una superficie oscura. Si accasciò portandosi le mani alla testa, preda di una fitta più forte.

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