Perdere l’equilibrio

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Un filo che corre da lato a lato, attorno spalti pieno, dentro a un contenitore colorato. E io che metto un piede davanti all’altro, in bilico. Le risate e i sospiri mi deconcentrano. Ma devo proseguire, perché non vi è alcuna rete a difendermi dagli errori. L’equilibrio è qualcosa di relativo, quando anche solo un respiro può fartelo perdere. Perché io bisogno di aria. E i miei silenzi non dureranno abbastanza. Quando arriva il momento della tua esibizione, tutto si ferma, ma non il cuore, lui impazzisce. Sono a metà del filo, il mio peso mi spinge più in basso. E ora tocca risalire. Un altro passo. Una goccia di sudore sta per scivolare giù dalla fronte. Basta così poco per perdere l’equilibrio.

Perdonami

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Perdonami. E lo dico a me stesso, quando mi ingozzavo di cibo fino a star male e quando smettevo di farlo per giorni, per punirmi di non essere ciò che avrei voluto. Il male di vivere spesso si nasconde nelle cose più insignificanti. Ed è sempre complesso rendersene conto, ci vorrebbe una grande osservazione di se stessi e nessuno di noi ne ha le armi, soprattutto quando si è ancora piccoli. Quando si osserva dai bordi del campo il proprio compagno di squadra essere atletico e velocissimo col pallone. Quando si sceglie di rimanere in panchina perché non ci si ritiene in grado di fare altrettanto. Quando è il campo a condannarti alla panchina. Quando sono gli altri a fartelo notare. Quello che nessuno dice mai è che fa male. Molto male. E quello che nessuno ti dirà mai è che dal non riuscire ad accettarsi se ne esce con molta fatica e tanto coraggio. E questo non tutti riescono a trovarlo. Molti rimangono ombre. Immagini riflesse e deformate, sogni che rimangono a metà. Quando ci penso non posso che dirmi una cosa: perdonami. Per quello che hai dovuto patire per reagire a tutto. Costruirti l’aggressività necessaria per non farti calpestare, crearti la rabbia come combustibile per reagire alle ingiustizie della vita, per averti costretto a fare tue le disillusioni, perché così saresti più capace di non farti travolgere. E poi per aver avuto pazienza, perché aver tenuto in tutto questo l’anima a riparo da tutto, pronta a riprendersi il suo posto, facendola allenare duramente, perché potesse abbandonare la panchina e tornare in campo più forte di prima.

L’anticamera del fallimento

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A chi non è capitato di conoscere qualcuno che ha scritto un libro. Ormai è diventata la moda del momento. Un po’ perché i modi di pubblicare sono molti, un po’ perché l’esibizionismo è diventato un “must”. Mi chiedo tante volte se davvero ci siano ancora storie da raccontare. Da lettore mi capita ormai troppe volte di leggere libri che mi sembrano tutti uguali, tutti che partono con la presunzione di voler raccontare qualcosa di innovativo e poi scopri che è il solito formato trito e ritrito e già proposto in mille salse. C’è sempre una componente stilistica che può differenziare le proposte, ma resta il fatto che trovare una storia veramente originale sia quasi impossibile. La cosa forse più triste è quando riesci a identificare lo schema costruito a tavolino per emozionare, si tratta di una scelta oculata di eventi, parole e reazioni tali da portare il lettore a provare un certo tipo di emozione. Quelli bravi riescono a camuffare lo schema, altri, invece, cadono in pieno nel mostrare, oltre alla storia, il meccanismo. La verità è che non è affatto semplice risultare originali e forse non lo è nemmeno sentirsi tali, in un mondo in cui ognuno di noi vorrebbe essere qualcun altro. In cui quello che mostri, quasi sempre è diverso da ciò che sei. E chissà che non sia proprio per questo che tutti vorrebbero scrivere un libro: per raccontare ciò che si vorrebbe essere davvero. Anche se questa può essere l’anticamera di un fallimento.

L’attesa per un uomo che sta per diventare papà

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L’attesa per un uomo che sta per diventare papà è diversa da quella di una mamma. C’è una componente che è assimilabile allo smarrimento, alla paura di non riuscire a essere all’altezza di un compito così difficile. Forse alla consapevolezza di andare incontro a qualcosa che non si conoscerà mai davvero, se non nell’attimo stesso in cui quel miracolo avverrà. Quella domanda che si ignora sempre: ma sarò più fragile io che sono grande e grosso o tu, che sei così piccola e indifesa? La verità è che dovremo aiutarci a vicenda. Perché non è che abbia da darti molto di più di ciò che sono. Con tutti i miei difetti, i sogni infranti, le ferite, ma tu sei un sogno che diventa realtà, così l’attesa diventa fremente come per i bambini che a Natale aspettano il momento in cui potranno scartare il loro regalo. Perché la verità è che a un uomo che sta per diventare papà non sembra nemmeno ancora vero, anche quando ti sento muovere nella pancia della mamma. Anche quando lo smarrimento si dissolve, come la nebbia all’arrivo del sole più caldo, e riesco a immaginare un volto che non riesco più riconoscere: il mio.

La ballerina

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La ballerina saltava sulle punte, in bilico tra la rabbia e se stessa. Muoveva i fianchi al ritmo dei suoi pensieri, abbandonati alle note leggere di una musica passeggera. Sola nello spogliatoio, sola nell’autobus, tornando a casa. Sul palco, davanti agli spalti gremiti. Dietro le quinte, tra i rumori ammorbiditi dal sipario. Mentre si allena, sudando l’anima e la voglia di continuare a ballare. La ballerina osservava il suo amore allontanarsi, tra le dita l’ultima carezza, negli occhi una lacrima che prima o poi sarebbe caduta. Ma pronta a guardarsi allo specchio, a sentire il suo corpo muoversi, galleggiando sulle note, brillando nonostante tutto. Perché la vita è un ballo. E provando si sbaglia, si cade, ma poi ci si rialza. E si ricomincia. La ballerina guardava oltre il bordo del mare, il sole nascente che si rispecchiava nei suoi occhi. Si sarebbe innamorata ancora, ora lo sapeva. E mentre si inchinava al sole, sulle punte, salutava se stessa, di nuovo riflessa nel mare.

Abbiamo imparato

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Abbiamo imparato a sentirci vivi oltre il fruscio del vinile, girato con una Bic la bobina di una cassetta e mandato ossessivamente in loop una canzone in un lettore mp3 e anche se attorno a noi cambiava il mondo, restavamo ancorati a quelle emozioni. Abbiamo imparato a immortalarci in foto improvvisate, rimanendo noi stessi. E anche a costo di sembrare ridicoli, abbiamo continuato a credere nei sogni. Anche quando ci ridevano dietro. Anche quando ci davano degli illusi, mentre sapevamo perfettamente che avevano ragione. Abbiamo imparato a gridare in uno stadio perché così le delusioni facevano meno male. E dopo aver esaurito tutte le energie, trovarne ancora per rimandare indietro una lacrima. Scoprire di essere fatti di una pietra, che soltanto la pioggia può scalfire, con il tempo. E oltre il tempo.

Canzoni scritte al bar

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Canzoni scritte al bar, al riparo da occhi indiscreti. Io non ero solo, mai con le mie parole. La musica in sottofondo. Qualcuno ordina un caffè, il mio era sempre già freddo. Una donna osserva il suo cellulare, come in attesa di un messaggio che non arriverà. La ricerca di una rima, poco prima che fuori iniziasse a piovere. E di scoprire che avevo dimenticato l’ombrello un’altra volta. Consapevole che camminare sotto la pioggia mi avrebbe fatto sentire vivo. La barista mi osserva, chissà cosa pensa. Ogni tanto guarda fuori dalla vetrina, forse in attesa di qualcuno che non è ancora arrivato. Forse immagina un mondo diverso da questo, di sposare quell’uomo sfuggente, di fare un figlio con lui. E magari tornerà a casa da sola. Come ogni sera. Queste sono le canzoni che nascono in un bar e che mi racconto poco prima di andare a dormire.

Memoria collettiva

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La memoria collettiva ci fa diventare un mostro, oppure l’esatto contrario. In poche parole, anestetizza le nostre idee individuali. Per certi versi agisce da lenitivo per gli eventi negativi, se non quando amplifica gli effetti di quelli positivi. Noto sempre più spesso che i social possiedano una grande potenzialità, quella di creare una memoria collettiva. Questo accade grazie a una strumentale e continuata opera di dissuasione dalla realtà, per quanto la storia stessa sia un punto di vista. La ricostruzione sistematica degli eventi genera una storia alternativa, quindi, di fatto, un’altra realtà possibile. Il tema è sempre il solito, chi ha interesse, nel fare cosa. Proprio per questo dobbiamo sempre fare attenzione quando esprimiamo un parere o un pensiero, non perché non sia giusto farlo, ma perché potrebbe essere, inconsciamente, il frutto di una nuova memoria collettiva in fase di costruzione. Potremmo aver anestetizzato un altro pensiero nato liberamente. E che magari abbiamo taciuto. Non si tratta di difendere uno o un’altro punto di vista, ma la libertà, non solo di opinione. Perché se non ci riflettiamo adesso, domani potrebbe essere tardi. E potremmo essere noi stessi il mostro, anche quando penseremo di essere il suo contrario.

Perdersi

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Io li ho sempre capiti quelli che a un certo punto della loro vita si perdevano. Erano i tempi dell’alcol e delle prime droghe. Quelli che iniziavano a odiare il mondo costruito e perfetto che gli altri mostravano senza pudore. E lo capivo perché avevo assaggiato il veleno, la rabbia, il rancore. Quando non fai parte dei circoli e delle élite inizi a conoscere il mondo terreno, quello fatto di piccole rivalse, ripicche, sofferenza e soprattutto quello che provoca un male silenzioso: la rassegnazione. È in quel mondo che nasce e cresce la voglia di scappare da tutto. E le strade non sono poi molte. È un falso bivio quello che ti chiede di scegliere tra combattere o lasciarti andare. In tutti e due i casi devi scontrarti con il lato oscuro. Tutto diventa grigio, incolore e ti senti perso. C’è chi si perde nel non mangiare, chi nel bere fino a star male, chi si droga fino a perdere completamente la propria anima. Strade diverse, ma simili. Era un mondo spietato. È un mondo spietato. Un film che viaggia a velocità diverse a seconda della prospettiva, del luogo di nascita, delle possibilità. Così anche la felicità può diventare un punto di vista. O, peggio, un punto lontanissimo. Irraggiungibile. Per ribellarsi e rialzarsi ci vuole un coraggio che non sempre si ha, perché nel nostro mondo chi è diverso viene semplicemente emarginato, se non definitivamente annientato. Ed è per questo che si nascondono i lividi, le ferite, sia fuori che dentro. Perché tutto quello che fa riflettere o pensare, spaventa. Io li ho sempre capiti, quelli che si perdono. E non starò a dire che per non perdersi non basta la determinazione, la forza di volontà e tante volte nemmeno il coraggio. Ognuno di noi si porta dentro quel mondo, magari nascosto in profondità, magari è il combustibile che spinge a scrivere.

Bulli si diventa

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Bulli si diventa. L’avvento dei social ha svelato l’indole oscura delle persone, convinte che lo schermo sia uno scudo capace di nascondere anche le intenzioni più subdole. Non è sempre così, ovviamente. Si tratta di un’esagerazione, ma è proprio questo il fenomeno che noto sempre più spesso, l’incapacità, in rete, di contestualizzare. L’estrapolazione di un concetto utile per avvalorare una tesi da un discorso spesso più ampio e articolato. Il rischio di questo fenomeno è la completa perdita del senso dei discorsi, fino ad arrivare alla strumentalizzazione di ogni singolo stralcio di un discorso come arma per diffamare, deviare, distruggere la credibilità di un potenziale avversario. Il problema forse più occulto è che tante volte anche involontariamente si entra in un circuito nel quale si perde il controllo della situazione. Questo può succedere a tutti noi, spinti dalla rabbia, dal rancore, dalla frustrazione per le proprie personali delusioni. Il linciaggio mediatico parte da un singolo commento, unito poi ad altri diventa uno tzunami devastante e spesso impossibile da fermare. Il bullismo virtuale nasce da queste piccole cose. Bulli si diventa, quando si smette di essere se stessi e ci si lascia trascinare dal branco. Quando si delega il proprio pensiero a un comodo espediente che ci permette anche solo di sfogarci. Magari mettersi nei panni dell’oggetto dei nostri commenti può essere un primo passo.