Era il 1990. Erano le prime partite di calcio che vedevo in vita mia. Poi la favola del giocatore che si alzava dalla panchina per risolvere la partita. Lo sguardo spiritato, quasi di stupore, dopo il primo gol. Ricordo l’atmosfera di festa per i gol successivi, fino alla semifinale Italia – Argentina, contro niente meno che Diego Armando Maradona. Ricordo le attese fuori dagli spogliatoi della Juve per avere il suo autografo, che ancora oggi custodisco. Ricordo i cori allo stadio, come fosse ieri. Se ne va una parte di quella vita, perché Totò Schillaci per me era ed è rimasto un mito.
Le canzoni di Marco Masini sono stati per me una colonna sonora, nei momenti difficili e in quelli più belli. La gente parlava, parla e parlerà ancora, ma la verità è che la bella musica, quella che sa emozionare passa sempre. Le chiacchiere restano lì, nel rancore di chi non ha altro da offrire. È vero con alcune di quelle canzoni abbiamo sfiorato la rabbia, che però celava la voglia di rialzarsi e ricominciare ogni volta, di continuare a sognare, anche quando ti dicevano di stare zitto, di non pensare. Quelle canzoni insegnavano ad andare avanti nonostante tutto, a far diventare le lacrime nuove parole, nuove melodie, nuovi testi. Quelle canzoni hanno contribuito a farci diventare ciò che siamo, sicuramente non perfetti, ma fieri di dare ogni volta tutto ciò che abbiamo per giocare ogni partita, a prescindere dal risultato. Ci sono stati momenti in cui i teatri erano diventati improvvisamente vuoti, li abbiamo visti tornare a riempirsi e a cantare quelle stesse canzoni. A urlare vaffanculo a chi ci aveva ferito, ma anche che si può tornare a scrivere nuove storie d’amore. Per questo e per tanto altro, Marco, non posso che farti i miei migliori di buon sessantesimo compleanno. E che dire, se non dirti grazie. #10amori
Il successore” di Mikkel Birkegaard, edito da Longanesi, è davvero un bel thriller. E di questi tempi non è così semplice trovarne. Un mistero incastrato in un meccanismo narrativo ben costruito. Una storia che parte dal suicidio di William Falk, il Re del romanzo giallo danese, il cui cadavere viene ritrovato sulla poltrona di casa di Laust Troelsen, con accanto la scritta “SCUSA”. Anche Laust è uno scrittore, ma che non ha mai pubblicato niente e per vivere svolge stancamente la professione di insegnante. Falk, però, ha nominato una serie di scrittori conosciuti tempo prima per portare avanti il suo ultimo lavoro, tra i quali proprio Laust, il quale dovrà, per essere scelto per il difficile compito, vivere nei ritmi e nelle consuetudini di William. I personaggi del romanzo sono affascinanti, a partire da Laust e William, per arrivare a Paul, Versal e Flemmingway. Il ricorso ai flashback ben si incastra con la narrazione degli eventi in corso. Si tratta di una caccia al tesoro, rappresentato proprio dal testo del romanzo postumo di William Falk, sullo sfondo, però, c’è un mistero ancora più grande e complesso. Un meccanismo a orologeria che mette in scena una storia accattivante e coinvolgente. Ottimo romanzo. #IlSuccessore
Senza alcuna scusa, la notte non ha portato consigli. Chiusa in una stanza, origli discorsi che non comprendi. E lo capirai col tempo, che spesso non accade. Che non c’è vento che tenga, quando cade una nuvola. È l’alba, lucida e nuda. Cruda come crederci ancora; Ora che la nuvola è fumo. Il profumo di un’altra scusa.
Incrocio sulla banchina della stazione una persona che a prima vista mi sembra di conoscere. Capisco che quella persona è stata una persona amica nei tempi dell’adolescenza, fino al periodo dell’Università. Successivamente ci allontanammo, non ricordo nemmeno bene il motivo, probabilmente il tempo ci aveva cambiati. Nemmeno un saluto, una parola, nulla. Mi ha fatto riflettere su come i legami, le amicizie svaniscano spesso senza lasciare traccia, anche se sappiamo bene che non è vero, le tracce restano. Restano le delusioni, come macchie indelebili su un pavimento appena lavato. Ripensi a quei tempi, era inevitabile che io cambiassi. Era essenziale. A volte per andare oltre bisogna distruggere qualcosa di se stessi, anche se questo porterà a essere visto e percepito come qualcosa di differente. Il tempo della leggerezza era finito, anche se a volte mi sembra non esserci mai stato.
11 settembre 2001. Ricordo ancora il momento esatto in cui il telegiornale ha mostrato le immagini del primo aereo che si schiantava contro la torre. Ieri sera rivedevo quelle stesse immagini in documentario dell’evento e non riesco ancora oggi a immaginare che sia davvero accaduto, nemmeno essendo andato sul posto e aver visto gli immensi buchi rimasti, diventati poi monumenti. E poi penso che da quello stesso momento il mondo è cambiato. Una sequenza di eventi ci hanno condotti fino alla situazione storica attuale, attraversando scenari orribili, riportando le lancette della storia a decenni prima. Come una tremenda macchina del tempo, sembra non riuscire più a riportarci a quella vaga e inconsapevole serenità e soprattutto alla consapelezza di un attimo prima dello schianto. Gli equilibri persi, non sono mai stati davvero ritrovati, in un mondo che cerca il suo sviluppo, ma alimenta i proprio conflitti. Che cerca di emanciparsi, ma resta fermo nelle idee di contrapposizione, per l’ansia di potere, forse, o di fermare un tempo, per sua natura ciclico. E poi ci siamo noi, un’umanità spesso cinica ed egoista, spaventata e opportunista, arrabbiata e rassegnata. Il crollo delle torri ha rimesso in evidenza tutto questo, quegli equilibri nascevano da un’illusione, che le guerre non ci fossero più. Ma non era vero. Quella serenità e quella consapevolezza erano finzione. Quelle guerre erano solo altrove.
C’è chi urla, ai bordi delle strade. Ai limiti del bosco, oscurità e contorni fluo. Dove la follia è un vanto, e ci si svende col sorriso C’è chi vende inchiostro, su piedistalli di cartone. Specchi deformi, in offerta speciale. C’è chi urla, ai confini di un mondo, in cui scriveranno per noi. Noi, emozionati, davanti a un mare perso tra i filtri, di ciò che non siamo.
Qui finisce il mare. Tra un soffio di vento leggero e quella sensazione che domani pioverà. Cambiano le stagioni. Cambia un clima, che talvolta ci somiglia. Incostante, tenero e violento, come solo le emozioni sanno essere. C’è ancora un frammento di luna, appeso lì, in attesa che le prime auto tornino a far rumore. C’è un treno che attende qualcuno, fermo su un binario che non conduce da nessuna parte. E poi, c’è la nostra immagine, riflessa in una vetrina svuotata dagli ultimi sconti. Le nostre convinzioni, gettate nel cesso di un Autogrill o in un post scritto male. Qui finisce il mare. E noi siamo barche.
“Un animale selvaggio” di Joel Dicker è un bel thriller, la cui trama è decisamente complessa, resa fluida da una narrazione attenta e puntuale, con qualche criticità nella lettura rappresentata dai numerosi e inevitabili flashback. Nel complesso si tratta di una storia dal forte impatto psicologico, che mette a nudo le caratteristiche oscure dei personaggi, i punti d’ombra, ma soprattutto le loro fragilità. I personaggi principali sono Sophie, bella e attraente, che fa girare la testa a tutti, compreso il suo nuovo vicino Greg, poliziotto e invaghito della donna. Arpad, marito di Sophie, anche lui bello e di successo, ma che nasconde un segreto nel suo passato. Greg e sua moglie Karine ammirano e invidiano la coppia, che appare perfetta. Tuttavia il passato e i segreti stanno per tornare a galla, compresa una vecchia rapina e una conoscenza che sembrava essersi persa nel passato di Arpad. Un thriller ricco di colpi di scena e spunti sui quali riflettere. Consigliato.