Mi hai scelto, con le mie ferite. Sporco dei miei naufragi. Con le tasche piene, di sogni infranti. Con gli occhi induriti, senza più lacrime. Con le mie parole, timide e sussurrate. Le mie grida, gettate in pasto alle note. E alle pagine bianche, imbrattate di speranza. Con i miei riflessi stanchi, rialzandomi ogni volta. Le mie rughe, scavate dai fiumi delle delusioni. Tu mi hai scelto, nonostante tutto questo. E mi hai regalato un mondo, che credevo perso.
Qualche giorno fa ho ricevuto una bellissima notizia che riguarda l’ambito letterario. Lo dico sinceramente, mi sono emozionato. Sono molto contento e non vedo l’ora di potervi dire di più. Si tratta anche per me di una ripartenza. Ci sarà da lavorare molto, ma come sempre ci metterò cuore e anima. Come sempre, ringrazio chi mi ripone in me sua fiducia, chi mi legge, chi mi dà consigli costruttivi, chi collabora nei miei progetti.
Il teatro è pur sempre una questione di prospettiva. L’attore che osserva il pubblico, il regista, chi muove le luci, l’ubriaco in ultima fila che cerca il cesso. La vita è nei suoi scenari, nelle bottiglie di birra, buttate giù per dimenticare. Nelle notti passati in bianco, perché tuo figlio non ne vuole sapere di dormire. Nelle parole che volevi scrivere, ma non ne hai avuto il tempo. Il teatro è lo spettacolo che finisce, la gente che esce dalla sala. È l’ubriaco che si risveglia E vede aprirsi la porta del cesso. È chi luciderà il palcoscenico, sperando in un rinnovo di contratto. È l’amore maldestro di due amanti, che scappano via dal bagno, sicuri di non essere stati visti.
É la retorica degli amori che si perdono, l’inganno. La sabbia che scivola via tra le mani. La lancetta di un orologio, che si è fermato tempo fa. È inchiostro sprecato. La retorica degli amori che si perdono, é il perdóno stesso. Verso te stesso. Perché ogni volta ne uscirai diverso, con il tuo riflesso, in uno specchio di carta. Fino a non riconoscerti più. Tutto si svela, come riflessi colorati, su un mare di tessuto, che punge la pelle. Aghi, lame, parole roventi. E poi, solo qualche scritta sul muro. É la retorica degli amori che si perdono, la complicità della sera. Del vento che arriva dal mare. Di quel brivido, di freddo.
Come ogni sera, sul palco, resto a guardare gli spalti ormai vuoti. Le luci sono spente, il ricordo vivo di quei volti che sorridono. Un uomo, una donna, che si abbracciano. Ridono, ancora. Li vedo andar via, tra le voci nella sala. Ormai quasi deserta. Ma che volete che ne sappia, io. Sono solo un comico, un uomo che, per vivere, indossa una maschera E che, ogni sera, svanisce, con le luci dei riflettori, silenziosamente. A sfumare.
Il cursore lampeggia. Ma la pagina è ancora bianca. Sto perdendo sangue. Costruire un mondo, farne le spese. Questo è un romanzo, non una realtà qualsiasi. E mi porto le mani sugli occhi, perché non posso non vedere, che il tempo scorre. Che la sabbia scivola, sulle pareti lisce di una clessidra. Mi guardo allo specchio. C’è un volto che è cambiato, lo stesso sguardo, che sogna meno di un tempo. Scrivere è una lama, non può non lasciare segni. Solchi sul viso, rumori oltre lo stomaco. Il cursore lampeggia, ma le pagine bianche non mi hanno mai fatto paura. Sto perdendo sangue, ma è inchiostro.
La verità è che nella vita tante volte è necessario girare pagina. E farlo lascia dentro sempre tante ferite, pagine scritte a metà, rimorsi, scrupoli, sogni naufragati. Ma ogni passo è una pagina in più, scritta su un libro che è la nostra vita. Certo che fa male, è inevitabile. Attendere per una vita intera che qualcosa cambi è semplicemente inutile. È meglio sbagliare. Perché aiuta a capire come ricostruire. Chi di noi non ha pensato solo a come veniamo visti al di fuori di noi, lo abbiamo tutti. Perché mettersi in discussione è più complicato. Non basta stamparsi in faccia un finto sorriso, perché le rughe tradiscono le preoccupazioni, le paure, le notti trascorse in bianco fissando il soffitto. Perché siamo esseri umani, con tutte le nostre debolezze. Le scelte non sono mai solo quello che rappresentano, sono sempre qualcosa di molto più profondo. Nessuna di esse è mai frutto di un impulso momentaneo, ma è quasi sempre il risultato di un percorso ben più complicato. Giudicare è più semplice. Nascondersi dietro a spettacoli preconfezionati lo è anche di più. Fingersi perfetti è l’antidoto a tutto. Ma credo che per scrivere si debba fare qualcosa di più, scavare dentro quelle ferite, completare le pagine lascia metà, sparare ai rimorsi, agli scrupoli. E costruire una barca per andare a recuperare quei sogni che sono naufraghi da qualche parte.
Oggi come oggi è difficile trovare giovani autori di thriller con una marcia in più. Ilaria Tuti, quella marcia in più, ce l’ha. “Fiori sopra l’inferno è un romanzo” che tiene alta la suspence, pur entrando nella mente dei protagonisti con delicatezza. La narrazione è elegante e apparentemente “tranquilla”, ma è un inganno. La trama ha un’architettura ben studiata e si sviluppa con una maestria. Inevitabile non parlare della protagonista Teresa Battaglia e del suo collaboratore Massimo Marini. Lei è scorbutica, con un grande talento investigativo. Lui è alle prime armi, ma dimostra sin da subito di avere le carte in regola per supportare la protagonista, anche nella sua goffagine, riesce a essere decisivo. Ma quello che determina un’ombra che lentamente sulla vita dei protagonista è il male che ha colpito Teresa e che degenera giorno dopo giorno. É l’Alzheimer. Questo problema costringe la protagonista a scrivere gli appunti su dei fogli per non perdere di vista le informazioni trovate durante le indagini. Le ambienta riguardano scenari di montagna, in cui i personaggi sono molto chiusi e che sembrano tutti difendere il potenziale killer, tra stranezze e storie antiche, la storia svela il vero volto del paese e dei suoi abitanti. La montagna nasconde un segreto. Ed é inquietante. Lo si capisce sin dalla prima scena. Tra le montagne c’è un ospedale, nel quale c’è una stanza a cui solo poche persone posso accedere. E devono essere incappucciate. Inutile aggiungere ulteriori dettagli. Leggetelo.
Un po’ ci piace farci male, altrimenti non saremmo umani. Nelle sfumature meno in luce, alle notti passate in bianco. Nelle note discordanti, ma che rendono il suono brillante. Nei sogni che facciamo. E in quelli che non abbiamo il coraggio di fare. Nei giorni in cui tutto sembra lontano. Un po’ ci piace farci male, scriviamo per questo. Per dipingere luoghi sconosciuti. Per darci una voce. In un mondo in cui tutti urlano favole.
Siamo persone fragili. Questa è la verità. Il caos del virus ha fatto emergere il peggio di noi. Quel bisogno ancestrale di timore e diffidenza. Ma siamo anche torrenti che cercando sempre la loro strada, anche quando provano a farli sparire. Quindi, passerà. A volte mi guardo allo specchio. Eh, sì. Mi sento invecchiato. A volte mi manca la forza e la determinazione per rivendicare quello in cui credo. Mi viene voglia di dire “ma chi se ne frega”. Avete ragione voi. Poi c’è una parte di me che non vuole farlo. Che ancora si incazza. E quando risento emergere quella parte quasi mi commuovo, perché quella parte di me é una grande testa di cazzo, ma ha una passione che non si ferma davanti a niente. E so perfettamente che devo quasi tutto a quella parte di me. Così ritorno a guardarmi allo specchio, con più capelli bianchi e qualche ruga in più. Più stanco, forse. Con negli occhi, però, ancora quel fuoco. Perché siamo così, fragili. Siamo torrenti, fiumi che, quando sono in piena, ritrovano la loro strada. Nonostante tutto.