Il suonatore di violino – Racconto

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L’uomo camminava a passo veloce. Si voltò e vide che la donna con lo sguardo cupo chiedeva qualcosa ai passanti, mostrando un oggetto. Accelerò il passo, muovendosi tra lo sciame di passanti di un sabato pomeriggio nel centro di Milano. Si scontrò con una ragazza e per un attimo perse l’equilibrio, nel suo sguardo cercò qualcosa che placasse la sua inquietudine, ma lei, indifferente, riprese a camminare. Raggiunse la piazza e rallentò. Guardò il Duomo, soffermandosi sulla madonnina – Perché? – sentì chiedere da una voce, dentro di lui. Con la coda dell’occhio vide la donna chiedere qualcosa alla ragazza che l’aveva urtato poco prima e voltarsi entrambe nella sua direzione. Si confuse nella folla e imboccò la via che costeggiava il Duomo. Vide il portico pieno di persone che gli sembrarono piene di vita. E si sentì vecchio, improvvisamente. Alla fine della via una musica, struggente, lo attirò. E si fermò ad ascoltare un uomo con un impermeabile logoro che suonava il violino. Sentì le lacrime scivolare sul viso. Ripensò a una sera lontana, a un camerino, al suono dei passi sul velluto del corridoio scuro e sul legno dei gradini. Poi la luce, accecante. Il palcoscenico. Socchiuse gli occhi, cercando nel buio, tra la gente che applaudiva, un volto, uno sguardo. Sentì quel calore unirsi al tocco delle sue dita che si muovevano con grazia sui tasti bianchi e neri di un pianoforte a coda. Le note, i silenzi. La passione. Una voce alle spalle lo fece trasalire. Si voltò e vide una donna che non conosceva, affannata, con in mano una fotografia che lo ritraeva. – Ma dove eri finito? – gli chiese. Un’eco lontano, e per un attimo l’uomo riconobbe lo sguardo che aveva cercato nel buio. Si guardò le mani, rugose e raggrinzite. Tremavano. Non riusciva a fermarle. In quel momento le odiò, le sue mani. Poi il ricordo svanì – Quante volte il dottore ti ha detto di non andare in giro da solo? – disse una voce ovattata, quasi a nascondere le note strazianti del suonatore di violino.

Ed era un giorno di neve.

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Era un giorno di neve. Uno di quei momenti in cui Torino sembra un giocattolo, soffice e incantata. Ovattata. I fiocchi scivolavano colorando ogni cosa di bianco, anche i pensieri. Sembrava che tutto d’improvviso potesse svegliarsi. C’era voglia di cantare, di parlare. Ogni cosa imbiancata sembrava diversa, più bella, più affascinante. La notte arrivò preso, sembrò la cosa più semplice del mondo parlare fino a notte fonda, per poi tornare ascoltando il suono dei passi sulla neve. Nessun suono credo sia paragonabile a quello, sia pacifico come quello. Gli istanti si soprapposero, come un vortice. Come una tempesta. Come un bacio all’improvviso, proprio mentre il treno inizia a muoversi, lento e con sé porta via un po’ di ciò che ti appartiene. Come un po’ di te, una favola fatta di colori, luci, a volte forti come i riflettori che ti abbagliano sul palco, come una canzone che arriva dritta all’anima. Quando un pensiero è racchiuso in una favola non può morire.

Recensione del romanzo “Il silenzio dell’onda” di Gianrico Carofiglio

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Il romanzo “Il silenzio dell’onda” di Gianrico Carofiglio è intenso, profondo, scava nell’anima del protagonista, Roberto Marias, ex agente segreto in crisi di identità, che incontra un’ex attrice, Emma, anche lei in cura dal suo stesso psichiatra. Si riscoprono insieme, ritrovano la strada persa. Roberto vive dentro si sé una guerra, il rapporto con suo padre, con il suo lavoro e con se stesso. Emma è inquieta e affascinante. Vive il dolore di aver rivelato la verità al marito, che poi è morto in un incidente. Le sue inquietudini si riflettono sul figlio, che vive a metà tra il racconto dei suoi sogni e la realtà di un sentimento verso una ragazza, che a sua volta è tormentata dalla violenza di una realtà spietata. Lo stile dell’autore è magistrale, diretto, semplice e coinvolgente. Accompagna il lettore nei pensieri più intimi dei personaggi, fino a scrutarlo dentro, così come lo psichiatra fa con Roberto. Ci sono tante storie in questo romanzo, tante realtà che si miscelano e si incanalano in una sola, che è forte, decisa. Che commuove. Spesso in un libro si cercano storie di avventura, tensione e passione. Spesso si cerca soltanto se stessi. E in questo libro magicamente si riescono a trovare entrambe le cose, legate con il giusto equilibrio, raccontate con semplicità e armonia. Ci si affeziona presto a questi personaggi, ed è poi difficile abbandonarli. Forse perché questi personaggi sono fragili come noi, hanno paura come noi. Sono alla ricerca di se stessi. Semplicemente vivono e cercano di superare i dolori e i drammi della vita. Il tema più importante di questo romanzo è certamente il rapporto tra genitore e figlio, un rapporto complesso, ricco di sfumature. Tra le pagine de “Il silenzio dell’onda” viene quasi “analizzato”, sviscerato nelle sue componenti, fino a renderlo tristemente affascinante. In una Roma che è sempre uno scenario perfetto per ogni tipo di storia, Carofiglio ha trovato il miglior completamento possibile per questo libro, che si divora in poco tempo e di cui poi si sente la mancanza, una volta terminato. “Il silenzio dell’onda” è un libro molto bello, raffinato ed elegante, ma, cosa ben più importante, che possiede un’anima e crea un contatto quasi mistico con il lettore. Assolutamente da leggere.

Recensione romanzo “Acciaio” di Silvia Avallone

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Il romanzo “Acciaio” di Silvia Avallone trasporta il lettore in un mondo che sembra lontano, quasi irraggiungibile. Pagina dopo pagina l’autrice svela una realtà che fa parte della vita di tutti noi, che regna incontrastata nelle fragilità che nascondiamo. La storia è ambientata tra i casermoni di via Stalingrado, a Piombino, e racconta la vita di due ragazze, Anna e Francesca, che stanno diventando donne e che scoprono i sentimenti, a modo loro. La realtà è dura e spietata, e le protagoniste devono lottare per vivere, e spesso l’unico orizzonte in cui possono sperare è una festa di paese. Scoprono di avere un corpo, e che con quello possono essere vincenti. Forti. L’amicizia tra le due ragazze è forte, invincibile. Ma pian piano il loro rapporto si logora, consumato dalle difficoltà di vivere tra quelle vie senza speranze, con persone con certezze limitate alla vita che gira intorno al lavoro alla Lucchini. Alla fabbrica di acciaio. Anna e Francesca scoprono l’amore, il sesso, anche questo a modo loro. L’amore le separa, le rende sconosciute. Tra le pagine di “Acciaio” ci sono squarci di vita, tra sangue e poesia, tra monotonia e voglia di uscire dal fango delle consuetudini. “Acciaio” è un romanzo amaro, forte, a tratti devastante. Emoziona, commuove e contemporaneamente fa rabbia. Riesce  a portare a galla le inquietudini che tutti noi abbiamo, le paure, e le speranze. I sogni. E’ un libro da leggere tutto d’un fiato, un vortice osceno e crudo. Drammatico e sentimentale. Forte. Un bel libro, una storia che colpisce al cuore, che annienta l’anima e la sputa con il suo bagaglio di insicurezze dentro le quali specchiarsi. Un’ottima lettura.

Come le nubi, il sole.

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Riflettore uno. Puntato.

“L’altro lato della luna è oscuro” urlò la donna.

“Perché mi dici questo?” rispose quello strano uomo.

“Perché sento che hai paura.”

Lo strano uomo abbassò lo sguardo e fece alcuni passi verso la finestra, aperta su un giardino meraviglioso. Poi alzò lo sguardo verso il cielo.

“La luna non c’è. Stanotte.”

“Sei tu che non riesci a vederla, ma se chiudo gli occhi. Puoi sentirla.”

Lo strano uomo non chiuse gli occhi. Si voltò verso la donna, la fissò per alcuni istanti. Senza dire niente e si avviò verso le scale. Abbandonò la stanza senza salutare la donna. Camminò per ore e ore, fino a sentire il dolore alle gambe.

Raggiunse la spiaggia e chiuse gli occhi con il respiro sempre più lento. Riaprì gli occhi e guardò ancora una volta il cielo.

“Ho paura” sussurrò.
Le onde si rincorrevano sullo strato di sabbia umida. E le nubi della sera nascondevano il grande sole rosso.

Si tolse le scarpe e passo dopo passo lasciò le sue orme. Un sentiero silenzioso, che presto le onde avrebbero nascosto,

come le nubi il sole.

Il rumore dei ricordi

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Lei chiuse gli occhi,

cantò per ore.

Quasi senza respirare.

Senza accorgermene mi ritrovai incantato,

perso tra le rovine dei miei ricordi.

Alcuni erano oscuri,

come cumuli di cenere di un incendio doloso

Mi soffermai a sentire l’odore di bruciato,

poi mi incamminai, fino a raggiungere le rocce.

Il vento soffiava forte. Mi bruciavano gli occhi.

“No, nessuna lacrima” mi ripetevo.

Mentre una melodia lenta riecheggiava,

tra il mare e l’orizzonte.

C’era rabbia in quel vento,

riuscivo a sentirlo.

Quando quella lacrima cadde,

scivolò giù abbracciata da un fiume,

per ricongiungersi al mare.

Allora riaprii gli occhi,

e mi risvegliai con il sapore di un bacio.

E il vento era cambiato.

Intervista a Rossella Rasulo, autrice del romanzo “Mi piace vederti felice”

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Rossella Rasulo, autrice del romanzo “Mi piace vederti felice”, edito da Mondadori, mi ha gentilmente concesso un’intervista, con la quale si racconta e ci parla del suo ultimo successo editoriale:

1. Cosa hai provato scrivendo questo libro?

Difficile raccontare tutte le emozioni che ho provato. Riassumendo potrei dire di essermi chiusa in una grande tristezza, specie nello scrivere le lettere della nonna di Aura. Ogni parola mi riportava al vissuto con i miei nonni che non ci sono più. Non è stato semplice. Ho pianto spesso.

2. Hai descritto i luoghi di “Mi piace vederti felice” con passione, intensità e trasporto. Sembra tu ne sia molto legata. E’ così?

Non sento un legame profondo con l’isola d’Elba, lo ammetto. In generale difficilmente mi lego ai luoghi, anche se appartengono alla mia infanzia o alla mia adolescenza. Tengo a costruire legami con i ricordi, con le persone, con le esperienze. L’unica città che riesce in qualche modo a insinuarsi sotto la mia pelle è Roma. Ma credo che sia una questione di DNA.

3. L’amicizia è un tema fondamentale nel tuo romanzo, quanto sono stati importanti i tuoi amici per continuare a credere nei tuoi sogni e per realizzarti, come donna e come scrittrice?

Per me l’amicizia è una delle cose più importanti della vita. A volte la sento più concreta dell’amore. Non che io non creda nell’amore (progetto di invecchiare con mio marito), ma l’amicizia, una profonda amicizia, resta sempre nonostante gli imprevisti della vita. L’amore non sempre sopravvive con la stessa tenacia alle stesse sfide.
I miei amici sono la mia memoria e le mie colonne portanti.
Ma quello che provo per loro lo si intuisce dalle parole che ho lasciato nei ringraziamenti.

4. Possiedi un diario segreto in cui racconti ciò che non diresti mai a nessuno?

No. Il mio diario per molti anni è stato il mio blog, ma era tutto tranne che segreto. Per un periodo ho tenuto degli appunti in codice sulla mia agenda, ma non è durato molto.
Adoro l’analisi e credo che sviscerare quello che non diremmo a nessuno sia un modo per conoscersi meglio. Ma per quello non ho bisogno di un diario segreto. Mi basta una chiacchierata con mio marito o con la mia migliore amica.

5. “La vita senza te non è vita. E’ solo l’attesa di incontrarti ancora”, è una delle tante frasi che mi sono rimaste impresse. Nel libro racconti una grande passione e tanti amori, hai mai avuto paura, o anche solo un dubbio, che l’amore che descrivi sui tuoi testi non esista davvero?

Il fatto è che non è possibile definire l’amore. È un concetto che raggruppa in sé miliardi di sfaccettature, di sentimenti che si intrecciano, di paure, di aspettative, di progetti, di complicità.
Quell’amore esiste, sicuramente. L’ho visto, ma non l’ho vissuto. Fortunatamente non mi è capitato di perdere la persona che amo. E spero di non doverlo scoprire mai.

6. Che analogia c’è tra i tuoi scatti fotografici e le immagini che crei scrivendo?

Adoro la fotografia. Non sono brava e non mi ci sono mai messa d’impegno, ma fotografare lo sento affine allo scrivere.
Si lasciano da parte le parole e si affida a delle immagini il nostro racconto.
Non so se ci sia un’analogia tra il mio modo di scrivere e il mio modo di fotografare, ma so che entrambe le cose per me sono in piena evoluzione.

7. L’amore rende folli, almeno a volte è così. Dove posizioneresti il confine tra amore e follia?

Il confine tra amore e follia è spesso impercettibile. È per amore che si fanno le cose più sciocche. È sempre per amore cheaccantoniamo la logica e la razionalità.
Spesso ho pensato che una vita senza grandi emozioni fosse più semplice e più pratica da gestire. Ma come si fa a rinunciare a quella morsa che non ti permette di pensare ad altro?

8. Sei certamente un’importante esponente della “scrittura sul web”, come dimostrano i tuoi importanti blog del passato e la tua predilezione per i “social cosi”, come li chiami tu, tanti sono quelli che hanno la presunzione di definirsi “scrittori”, tu cosa pensi riguardo a questa tendenza? Chi è lo scrittore, e chi il blogger?

Il fatto è che anche io, con due romanzi editi da Mondadori e un lavoro che si basa esclusivamente sulle parole, faccio fatica a definirmi scrittrice.
Non basta un blog, nemmeno se si producono le venti righe più belle del creato, per definirsi scrittore. Ma è un fenomeno strano. Anche chi non scrive e si limita a leggere pensa sempre di poter fare meglio di te.
Ma tra un romanzo e un post c’è un oceano di tecnica, di studio e di dedizione in mezzo. Tutti tendono a scordare questa cosa.

9. Tornando a “Mi piace vederti felice”, cosa c’è di te in Aura? Esiste una “tua” Paola?

Aura di me non ha niente se non qualche riflessione su quello che osserva intorno a sé. Questa volta, al contrario di quello che ho fatto con “Ti voglio vivere”, il mio primo romanzo, non ho saccheggiato le personalità dei miei amici.
La mia migliore amica non si sentirà derubata nel leggere di Paola. Almeno spero.

10. C’è qualcosa che secondo te accomuna Lorenzo e Daniele, due personaggi chiave del tuo romanzo?

A parte l’età direi niente. Sono due opposti.
Daniele rappresenta l’amore che si logora e che si trasforma in un’ossessione malata, mentre Lorenzo rappresenta in qualche modo la parte sana dell’amore, quella che tutti vorremmo sperimentare.
Li ho creati in questo modo proprio per cercare di riflettere sulle tante sfumature dell’amore.

Ringrazio Rossella per la sua gentilezza e disponibilità e per averci regalato questa istantanea su di lei e sul suo nuovo romanzo “Mi piace vederti felice”.

Recensione romanzo “Il Marchio del diavolo” di Gleen Cooper

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Il thriller deve necessariamente avere dei punti fermi: velocità, suspence e una bella storia da raccontare. Green Cooper li conosce molto bene e sa come orchestrare una linea narrativa con colpi di scena, snocciolando avvenimenti che hanno luogo in tempi differenti. Questa storia infatti corre parallelamente tra l’epoca di Nerone e quella attuale. La protagonista, Elisabetta, è una giovane archeologa che riesce capire l’importanza di alcune raffigurazioni astrali, rappresentate in una tomba romana (San Callisto) e chiede di approfondire le ricerca, cosa che le viene impedito. A seguito dell’omicidio del fidanzato Marco da parte di due malviventi, lei decide di diventare suora. Ma il passato torna misteriosamente nella sua vita, conducendola ancora una volta in nella tomba di San Callisto. La storia che Cooper racconta è ricca di intrighi e colpi di scena, inseguimenti e scoperte, costruendo una realtà alternativa che fa riflettere. Struttura ben solida e una semplicità nel raccontarla sono le caratteristiche della tecnica  narrativa di questo autore, balzato alle cronache dopo il successo del suo romanzo “La biblioteca dei morti”. In genere si può dire che “Il Marchio del diavolo” sia un bel thriller, ma non si può negare che il respiro ricalca terreni già esplorati da altri scrittori, soprattutto per quanto riguarda l’intrigo in vaticano durante l’elezione del nuovo pontefice, ma sono tuttavia sottigliezze, il libro si legge bene, è veloce e attrae dall’inizio alla fine. Ottimamente costruiti i personaggi e le loro storie, compresa la figura di Cristopher Marlowe che spicca nel conflitto tra protestanti e papisti.

Presentazione del nuovo libro di Franco Forte – Il segno dell’untore

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Franco Forte, autore dei romanzi di straordinario successo “Roma in fiamme”, “I Bastioni del coraggio” e “Carthago”, ci presenta il suo nuovo libro “Il segno dell’untore”, che potrete trovare in libreria del 17 gennaio. Le premesse sono ottime, un thriller storico con personaggi attraenti e originali, un’ambientazione curata come solo Franco Forte sa fare e una storia che ispirano azione, emozioni e avventure epiche di alto livello. Pubblichiamo una breve scheda del romanzo e un’intervista che l’autore ci ha gentilmente concesso.

IL LIBRO

Milano, anno del Signore 1576. Sono giorni oscuri quelli che sommergono la capitale del Ducato. La peste bubbonica è al suo culmine, il Lazzaretto Maggiore rigurgita di ammalati, i monatti stentano a raccogliere i morti. L’aria è un miasma opaco per il fumo dei roghi accesi ovunque.

In questo scenario spettrale il notaio criminale Niccolò Taverna viene chiamato a risolvere due casi: un furto sacrilego in Duomo e un brutale omicidio. Chi ha assassinato il Commissario Inquisitoriale Bernardino da Savona? E perché? E chi ha rubato il candelabro di Benvenuto Cellini dal Duomo?

La figura del notaio criminale che si muove nel suggestivo scenario della Milano del 1500, dominata dalla Corona di Spagna e minacciata dalle continue epidemie di peste, è alla base del romanzo “Il segno dell’untore” di Franco Forte (Mondadori, in libreria dal 17 gennaio 2012), che ha per protagonista il giovane magistrato Niccolò Taverna nella capitale del Ducato nel 1576.

Investigatore astuto, intelligente, grande osservatore di particolari che sfuggono a inquirenti e criminali, Niccolò Taverna si trova a dover risolvere difficili casi di omicidio in un clima di tensione tra il Governatore della città, il potere clericale, rappresentato dalla figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo, e la Santa Inquisizione spagnola, che vede nell’arcigna figura di Guaraldo Giussani il suo nume tutelare.

Nel primo romanzo delle indagini di Niccolò Taverna, questo straordinario personaggio che sfrutta tecniche investigative a volte sorprendentemente moderne, per quanto perfettamente calate nel contesto storico in cui si muove (e ben documentate dall’autore) si muove in un mondo ricostruito alla perfezione, facendo compiere al lettore un vero e proprio salto all’indietro nel tempo di quasi 500 anni, in una Milano in cui, sullo sfondo del Duomo ancora in costruzione, delle colonne di fumo che si sollevavano dai fopponi, le fosse comuni in cui si bruciavano i morti di peste, dei conflitti di potere tra Stato e Chiesa, la criminalità dilaga incontrastata e stupri, furti e omicidi sono pratiche all’ordine del giorno.

Quella che Niccolò deve seguire è un’indagine incalzante, con lo spettro incombente della Santa Inquisizione che incombe ovunque, per risolvere un caso di omicidio che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso. Lo stesso arcivescovo Carlo Borromeo pare implicato, così come le più alte cariche della Corona di Spagna e della Santa Sede. Per non parlare dell’ordine degli Umiliati, che il Borromeo ha cancellato e che già una volta ha cercato di uccidere l’arcivescovo di Milano.

Sfruttando le sue straordinarie capacità investigative e le tecniche d’indagine dell’epoca, il Notaio Criminale Niccolò Taverna cerca di venire a capo di questi due intricati casi, che rischiano di compromettere la sua carriera e la sua stessa incolumità. Pur sostenuto da un intuito eccezionale, è costretto a combattere contro troppi nemici, tutti troppo potenti: pericolosi assassini, la Santa Inquisizione, la peste, i cui artigli ghermiscono proprio chi Niccolò ha di più caro.

Per il più abile Notaio Criminale di Milano la sfida è aperta e la posta in gioco è alta: la propria carriera e la propria incolumità. Oltre all’amore per una fanciulla nei cui occhi ha l’impressione di annegare.

Un thriller straordinario, che non concede soste al lettore, sostenuto da una rigorosa ricostruzione storica.

INTERVISTA A FRANCO FORTE SU IL SEGNO DELL’UNTORE

Il 17 gennaio 2012 Franco Forte, apprezzato scrittore di romanzi storici, direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (Gialli, Urania e Segretissimo), nonché direttore responsabile di importanti riviste quali la Writers Magazine Italia (www.writersmagazine.it) e la Romance Magazine (www.romancemagazine.it), tornerà in libreria con il suo nuovo romanzo, un thriller medievale ambientato nella Milano del 1576, all’epoca della grande peste bubbonica che falcidiò la popolazione ben più di quanto fece quella di manzoniana memoria. Ma di cosa parla esattamente questo libro, che appare fra i più interessanti fra quelli scritti da Franco Forte? Ecco una breve trama, giusto per inquadrare il romanzo.

Milano, 1576. Nel drammatico giorno della morte della moglie, consumata atrocemente dalla peste, il notaio criminale Niccolò Taverna viene convocato dal Capitano di Giustizia per risolvere un difficile caso di omicidio. La vittima è Bernardino da Savona, commissario della Santa Inquisizione che aveva il compito di far valere le decisioni della Corona di Spagna sul suolo del Ducato di Milano. Ma non solo: Bernardino aveva ricevuto l’incarico di occuparsi degli ordini ecclesiastici “difficili”, come gli Umiliati, messi al bando dall’arcivescovo Carlo Borromeo, mansione che ha reso ancora più difficili le relazioni tra potere secolare (Corona di Spagna) e potere temporale (Chiesa di Milano). Contemporaneamente, Niccolò Taverna deve anche riuscire a individuare il responsabile del furto del Candelabro del Cellini trafugato dal Duomo di Milano. Ma ben presto si accorge che la ricerca del Candelabro si rivela una pista sbagliata perché un altro oggetto, ben più prezioso, è stato sottratto: la reliquia del Sacro Chiodo della Croce di Cristo. In una Milano piagata dalla peste e su cui si allunga l’ombra della Santa Inquisizione, il notaio criminale Niccolò Taverna deve sfruttare tutte le sue straordinarie capacità investigative per venire a capo di questi due intricati casi.

Franco, una storia che appare davvero molto interessante, e forse per te un ritorno al thriller più canonico, per quanto all’interno dell’impianto del romanzo storico che ci hai abituato a costruire così bene.

Sì, in effetti “Il segno dell’untore” è una sorta di compendio di tutto ciò che ho imparato scrivendo prima thriller (come “China Killer” e “La stretta del Pitone”) e poi romanzi storici (da “I Bastioni del coraggio” a “Carthago” e “Roma in fiamme”). E mi pare di aver centrato il bersaglio, perché questo personaggio che ho costruito, il notaio criminale Niccolò taverna, è davvero affascinante e originale, te lo posso garantire.

Giusto, parlaci di lui. Chi è esattamente Niccolò Taverna?

E’ l’equivalente del 1576 di un moderno commissario di polizia. I notai criminali erano i magistrati che a quel tempo, a Milano, indagavano sui casi di omicidio, sui casi criminali e sulle ruberie, e lo facevano adottando tecniche investigative sorprendentemente moderne, per quanto i loro strumenti più efficaci per trovare i colpevoli fossero l’intuito, l’istinto e l’esperienza. Ma trutto ciò che i miei personaggi fanno, è rigorosamente documentato, e quindi sorprenderà vedere quali tecniche investigative possedevano.

Facci qualche esempio.

Nel romanzo ce ne sono a bizzeffe e, come detto, non si tratta di mie invenzioni, bensì del risultato di un lungo lavoro di ricerca e documentazione che mi ha portato a scoprire come questi funzionari del Tribunale di Giustizia di Milano fossero davvero all’avanguardia, per ciò che atteneva le indagini di polizia. Per esempio, erano soliti portare con sé dei bastoncini con la punta ricoperta di cera, con i quali frugavano fra gli oggetti appartenuti alle vittime di un omicidio, o su ciò che trovavano sul luogo di un delitto. Perché? La nostra mentalità moderna ci spingerebbe a rispondere: per non inquinare le prove. Ma naturalmente, dato che non esistevano analisi scientifiche, a quell’epoca, il motivo è ben altro. I notai criminali usavano quei bastoncini per frugare con sicurezza (secondo le credenze dell’epoca) fra gli ogetti rinvenuti sui luoghi degli omicidi senza rischiare di toccare qualcosa che potesse essere stato infettato dalla peste, che nel 1576 stava decimando la popolazione di Milano. Credevano che se avessero toccato qualcosa imbevuto dell’umore della malattia, questo sarebbe scivolato sulla cera dei loro bastoncini, e con una semplice scrollatina se ne sarebbero liberati, senza rischiare contagi.

Questo mi fa capire quanto sia accurata la ricostruzione che fai di quel periodo storico.

E’ proprio così: nulla è lasciato al caso, e Niccolò taverna si muove, mentre sviluppa le sue indagini, in una Milano ricostruita perfettamente nella sua coerenza storica, non solo ambientale, ma anche riguardo la vita di tutti i giorni: cosa mangiavano, come si vestivano, quali attività svolgevano le persone in quel preciso momento storico. A emergere, dunque, non è soltanto la storia di un magistrato che indaga sull’uccisione di un inquisitore (e sul furto di un oggetto sacro dal Duomo), ma anche la rappresentazione di un periodo storico molto difficile e per certi versi affascinante della Milano della seconda metà del 1500. La Milano sotto dominazione spagnola che vedeva contrapporsi il potere della Corona di Spagna e della Santa Inquisizione, a essa collegata, a quello del Soglio di Pietro, che vedeva nella figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo (che poi diventerà San carlo) un baluardo di primo piano nel conflitto tra potere secolare e potere temporale.

Ma quanto parte di thriller e di romanzo “giallo” c’è, ne “Il segno dell’untore”, rispetto al classico romanzo storico?

Non c’è una prevalenza dell’uno rispetto all’altro, bensì un continuo amalgamarsi e intersecarsi delle due cose. La ricostruzione storica e il respiro sociale e culturale dell’epoca sono da sfondo a una intricata indagine che deve fare i conti con gli strumenti limitati dell’epoca e la capacità del notaio criminale Niccolò taverna di risolvere i casi grazie alla sua inteligenza e alla sua esperienza. Ma tutto si muove in armonia con il periodo descritto, rispettando la coerenza che qualsiasi buon romanzo storico richiede, pur offrendo al lettore l’impianto, le emozioni e il ritmo di un thriller attuale e congegnato nei minimi particolari.

Mondadori sta facendo una forte campagnia di marketing e di promozione nei confronti di questo romanzo, che apre il 2012 per la collana Omnibus italiani. C’è una strategia precisa, dietro a tutto questo?

Sì, l’editore vuole iniziare il nuovo anno dando un segnale chiaro ai lettori di un grosso mutamento che ci sarà per i rilegati Mondadori. Il mio romanzo è il primo di un nuovo corso studiato con intelligenza, che vuole coniugare un prezzo più aggressivo e abbordabile dal pubblico rispetto al passato (15 euro anziché i soliti 20 euro), senza però svalutare i titoli che saranno presentati, puntando quindi alla massima qualità possibile dei testi da pubblicare. Sono felice di essere un po’ l’apripista di questo nuovo corso, e mi auguro che il mio notaio criminale riesca a farsi apprezzare dal pubblico per continuare a proporre le sue indagini mozzafiato.

C’è qualche collegamento fra questo romanzo e il tuo precedente, “I bastioni del coraggio”, anch’esso ambientato nella Milano del 1500?

Tra le due vicende sono passati trent’anni, e qualche personaggio lo si ritrova ancora ne “Il segno dell’untore”, per quanto non più come protagonista. Per esempio Anita, che ne “I bastioni del coraggio” era una delle eroine del libro, qui è la moglie di Niccolò Taverna, anche se la sua parabola narratva risulta piuttosto breve. E lo stesso accade per altri personaggi, come per esempio il perfido Inquisitore Generale Guaraldo Giussani, di cui non ci eravamo sbarazzati ne “I bastioni del coraggio”. Un giorno o l’altro scriverò un romanzo che farà da collegamento fra questi due titoli, descrivendo che cosa è successo in quei trent’anni di distacco fra un libro e l’altro.

PER VOI IN ANTEPRIMA I PRIMI DUE CAPITOLI DELL’OPERA “IL SEGNO DELL’UNTORE”.

La redazione del portale Causaedeffetto.it ringrazia l’autore Franco Forte per averci concesso questa anteprima.

Recensione romanzo “Agent 6” di Tom Rob Smith

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Il terzo capitolo della trilogia ideata da Tom Rob Smith “Agent 6” si differenzia molto dai due romanzi precedenti “Bambino 44”“Il Rapporto Segreto”. Il protagonista è ancora una volta Leo Deminov, personaggio complesso, articolato ed enigmatico. Tutto inizia con l’organizzazione del concerto della pace, organizzato a New York dalla moglie di Leo, Raisa, e al quale parteciperanno le due figlie Elena e Zoja. Complicazioni burocratiche impediranno a Leo di partecipare alla manifestazione. L’evento nasce per migliorare i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nel bel mezzo della guerra fredda, ma si trasforma in un intrigo internazionale, in cui spie e personaggi ambigui diventano la chiave dell’enigma contro il quale Leo dovrà confrontarsi: chi è Agent 6? Chi è colui che ha distrutto ciò che amava di più al mondo? Leo deve affrontare forse la peggiore delle sfide, ritrovare se stesso, salvare la sua famiglia e vendicarsi. Per farlo dovrà raggiungere gli Stati Uniti, cosa molto difficile per un ex agente del Kgb. Per farlo sarà disposto a fare ogni cosa, anche a ritornare a essere un agente del Kgb.

“Agent 6” è un romanzo introspettivo, che non rinunciare all’azione e alla sfida, il tutto costruito egregiamente, con un’ambientazione storica ben studiata e ricca di particolari. Il finale di questa storia chiude la trilogia nel miglior modo possibile, regalando l’emozione che ogni lettore cerca in un libro. La scrittura veloce e dinamica dell’autore si rivela azzeccata anche in questo nuovo lavoro, che a tratti risulta però più lenta, ma è lecito quando si deve affrontare una crisi interiore, che distrugge dentro il personaggio e ciò in cui crede. La bella moglie Raisa svolge un ruolo chiave nella trilogia di Leo Deminov, così come lo sono le due figlie Elena e Zoja, che mettono a nudo la vera anima del protagonista che, anche in questo caso, si rivela un eroe imperfetto e umano. Un libro da leggere, così come i primi due romanzi di Tom Rob Smith.