#Labirinto – Nelle puntate precedenti
Fabio può restare ore a guardare fuori dalla finestra. I suoi genitori sono preoccupati, da un po’ di tempo é cambiato. Fa domande strane. I suoi amici dicono che è pazzo, i suoi medici che è autistico. Fabio però con il computer é un mago. E adora i video giochi. É curioso e ha scoperto un gioco del passato. Il primo tentativo di realtà virtuale. Si chiamava Second Life. Si è costruito un avatar, un personaggio con cui può girare indisturbato in un mondo ormai deserto. Fabio é appassionato anche di radio, un mezzo di comunicazione ormai superato. Le frequenze che un tempo portavano musica sono ormai silenziose. Soltanto in una delle frequenze riusciva a sentire un fruscio diverso dagli altri. I suoi genitori però non gli credevano. Sapeva che presto lo avrebbero riportato dai dottori e gli avrebbero somministrato quelle pillole. Proprio in quel momento dalla radio sentì una voce. Riesci a sentirmi?
“Mi senti?” continuava a ripetere la voce dalla radio.
“Sì” sussurró Fabio. Tratteneva a stento i brividi. Il suono della sua voce che si appropriava del corpo. Una sensazione nuova.
Fabio ricordava le parole dei suoi genitori. Dicevano sempre di non dare confidenza agli sconosciuti. Era molto tempo fa. Prima che tutto cambiasse. Prima che loro cambiassero.
In quel momento la porta si spalancò e comparve sua madre. Fabio era riuscito ad abbassare il volume della radio.
“Fabio, hai parlato? Mi era sembrato di sentire delle voci”
Fabio scosse il capo e indicò il computer.
“I tuoi stupidi giochi” affermò stancamente Francesca.
In quel momento il monitor del computer si riattivó sulla schermata di Second Life.
Fabio lo fissò per qualche istante. Francesca cercò di capire, ma come tante altre volte non ci riuscì e uscì dalla stanza.
Fabio provava a comporre i pezzi nella sua mente. Forse stava impazzendo, come più volte gli avevano detto i suoi compagni di classe. Non aveva mai visto nessuno in quell’antico gioco virtuale. Ma se la schermata si era avviata, qualcuno doveva esserci.
Fabio si avvicinò al monitor, prese possesso del suo avatar e si mosse lungo la via principale. Osservò le stradine laterali. Erano deserte. Superò il vecchio bar dove un tempo gli utenti si incontravano per conoscere l’anima gemella. Poi sentì un rumore lieve, entrò in una via laterale. Fece qualche passo e poi la vide. Era una donna immersa in un lago di sangue. Ma era ancora viva. E gli stava chiedendo aiuto.
Fabio iniziò a muovere il mouse e riprese possesso del suo avatar. Osservò la ferita sul fianco della donna e cercò di tamponarla con la sua giacca.
Sapeva di avere solo pochi minuti per riuscire a salvarla.
Sentiva la crisi d’ansia arrivare.
Se fosse successo di nuovo lo avrebbero imbottito di farmaci come l’ultima volta.
Cercò di calmarsi e fece sollevare la donna. Una volta in piedi la fece appoggiare alla sua spalla e la accompagnó verso quello che era stato l’ospedale di Second Life.
Nella seconda schermata, accanto a quella del gioco virtuale, cercava tutorial su youtube su come fermare l’emorragia.
Giunti in ospedale, Fabio cercò la scritta “sale operatorie”.
Fece sedere la donna su una sedia a rotelle che trovarono all’ingresso e percorsero il lungo corridoio.
La donna non rispondeva. Stava perdendo troppo sangue. A ricordarglielo era la scia che stavano lasciando lungo il corridoio.
Entrarono nella sala e fece sdraiare la donna sulla barella. Era allo stremo delle forze.
Cercava di tenere a mente quello che aveva capito dei tutorial. Prese delle bende elastiche e del disinfettante. Ma non sarebbe stato abbastanza. Doveva rimuovere quella scheggia che spuntava dalla ferita. Avrebbe dovuto sedarla.
Dall’altra parte della casa sua madre continuava a chiamarlo per il pranzo e aveva a disposizione poco tempo. Cercò di calmarsi e di analizzare quello che i tutorial dicevano.
Aveva sempre avuto paura del sangue. E stava pulendo una ferita di una donna che non conosceva. Toccò l’oggetto che fuoriusciva dalla pelle e si rese conto che non si trattava di una scheggia, ma di qualcos’altro. Pensò a un proiettile, ma era diverso, seppur la forma lo ricordasse.
Lo rimosse lentamente e tamponò la ferita, una volta fermata e disinfettata aveva bisogno di applicare dei punti. Pregò di non svenire.
La voce di sua madre era sempre più forte. Prese la corda anallergica e iniziò l’operazione.
La donna era ancora sedata. Sperava che il dosaggio dell’anestetico fosse sufficiente.
In quel momento la porta si aprì. Era riuscito a nascondere la schermata di Second Life.
Accanto a sua madre c’era una donna con un abito elegante ma sobrio. Aveva un mezzo sorriso forzato.
“Fabio, saluta la dottoressa. Dice che vuole sottoporti a dei controlli.”
“Fabio, vuoi vestirti e venire con me? Faremo tanti giochi. Ti va?”
C’erano monitor dappertutto. E Fabio sentiva il morso della fame. Fuori dal suo involucro, costruito a sua difesa, stava gridando. E non avrebbe voluto farlo, sapeva che quando succedeva sua madre aveva paura.
Paura che suo figlio non riuscisse a superare l’ennesima crisi. Fabio riusciva a sentire la presenza degli elettrodi posizionati in ogni punto del suo corpo. Sentiva flebile il suono della voce della dottoressa che sta mostrando a sua madre un piccolo oggetto. Alcuni flash che sua memoria gli consegnava gli raccontavano che era stato portato in quel luogo trascinato da cinque persone, che lo avevano legato alla barella. Sprazzi di vista mostravano il monitor sul quale si muoveva impazzito il grafico delle sue funzioni vitali. La dottoressa aveva definito quello che stava accadendo: “la soluzione”. Fabio iniziò a percepire dei rumori provenienti da fuori, aldilà della porta della sala operatoria. Anche se nella posizione in cui si trovava riusciva a vedere poco, notò il viso della dottoressa. Era teso. Contratto. Capì che la dottoressa era allarmata. Il monitor che fino a pochi istanti prima aveva mostrato i suoi parametri vitali era saltato ed emetteva fumo nero. Anche quello accanto era ormai fuori uso.
“Cosa sta accadendo?”, pensò.
Fuori dal suo involucro Fabio aveva smesso di gridare. Sentiva il cuore accelerare, mentre vedeva la dottoressa fissare mia madre, la quale rispose con un breve cenno del viso.
Vidi la dottoressa indossare una mascherina e avvicinarsi con il piccolo oggetto in mano.
Proprio quel momento anche il terzo monitor saltò per aria. Fabio perse i sensi nel momento stesso in cui sentí penetrare l’oggetto nella mia nuca. Non vide più niente, soltanto flash che lo abbagliavano. Ovunque lui fosse in quel momento. Non riusciva più a percepire il tempo. Né a muoversi.
Quando riaprì gli occhi era sdraiato su una barella, si guardò intorno e pensò di trovarsi all’interno di un furgone che correva a folle velocità. Il lenzuolo era sporco di sangue e sentiva delle forti fitte poco sopra la nuca.
Fabio cercò di mettere a fuoco ciò che aveva intorno. Doveva mantenere la calma. Evitare che tutte quelle sollecitazioni non si sovrapponessero e che tutte le informazioni fossero condotte nei giusti corridoi. In quelli che conosceva meglio, perché aveva imparato a capire che la sua mente era come un labirinto. Bastava che informazioni finissero nel corridoio sbagliato perché tutto si confondesse e la realtà prendesse forme diverse.
“Stai bene?” sentì pronunciare da un viso che vedeva appena.
Fabio rimase in silenzio, chiedendosi se fuori dal suo involucro stesse già gridando.
“Io so che ti chiami Fabio”, proseguì.
Fabio sentiva il frastuono provenire dall’esterno del furgone. Gli penumatici stridevano, rumori metallici, colpi che spingevano il furgone da dietro, come se qualcuno o qualcosa lo stesse spingendo in avanti. I dati che vedeva sul piccolo monitor a lato indicavano che i suoi parametri vitali stavano tornando alla normalità.
“Come ti chiami?” pensò di chiederle. Chissà se la voce sarebbe uscita questa volta, pensò.
Fabio non seppe mai se la sua voce fosse davvero uscita, ma la ragazza che aveva di fronte rispose.
“Simona. Io mi chiamo Simona. E un po’ ci somigliamo”.
“E chi sei?”, immaginò di chiederle.
Fabio iniziava a unire le immagini che la memoria gli inviava. Quella ragazza era piombata nel laboratorio e aveva addormentato la dottoressa e sua mamma, lo aveva slegato e portato via, poco prima che degli uomini armati sfondassero la porta. Lo aveva accompagnato attraverso un’uscita secondaria e poi fatti salire sul furgone sul quale ora si trovava.
“Torneremo a prendere la mamma, sta tranquillo”, aveva detto. Mentre gli uomini armati salivano su un altro furgone e si lanciavano all’inseguimento.
La sala era piena di monitor, ma Simona lo condusse davanti a un oggetto che sembrava una scatolina nera. “Qui c’è qualcosa che vorrei farti vedere.”
“Cos’è?”, pensò di chiederle.
“Un vecchio gioco, che tu conosci. Ma dentro questo gioco c’è nascosto qualcosa.
Qualcosa che noi dobbiamo trovare.”
“Perché smettano di cercarci. E perché tutto possa tornare come prima.”
“Li abbiamo seminati, per ora. Proprio come nei giochi. Ma torneranno. Presto ci troveranno, per questo non abbiamo molto tempo.
“Cos’è?”, disse, indicando la scatolina.
“Un vecchio disco esterno. È lì dentro che si trova il gioco”.
“Lo accendiamo?”, chiese. Ma in quel momento la sentì arrivare. Una di quelle informazioni aveva preso il corridoio sbagliato. Capì dall’espressione di Simona che fuori dell’involucro aveva iniziato a gridare e che aveva preso in mano la scatola per lanciarla contro il muro. Simona si sarebbe arrabbiata. E non sarebbe più riuscito a giocare al nuovo gioco.
Sentiva di volerle chiedere scusa, ma non riusciva a fermare il suo corpo che si muoveva, impazzito. L’aria iniziava a mandargli, non era mai andato al mare, ma immaginava proprio così la sensazione di affogare. Questa crisi era una delle peggiori, lo capiva. I diversi dottori che avevano provato a curarlo avevano sempre detto di restare tranquillo, ma non ci era mai riuscito. E ora tutto stava divendo oscuro. Scatenando il lui la paura più ancestrale. Quella del buio.
Guardo Simona, con gli ultimi scampoli di lucidità. Gli sembro di vederla correre verso il muro e tornare con qualcosa in mano, per inserirla in uno dei computer.
Qualche istante più tardi tutto tornò normale. Improvvisamente.
Si guardò intorno, stupito.
“Cosa è successo?”, provò a chiedere.
Fabio non vedeva nulla di diverso.
Osservò il volto disteso di Simona. Sembrava divertita.
“Che gioco sarebbe? Cosa dovremmo fare?”
Poi si rese conto. Stava parlando e ne era consapevole. Sentì una forma di magone provenire da dentro, poi non riuscì a fermare le lacrime.
“Dobbiamo arrivare al nodo di trasmissione del segnale”
“Quello che inibisce parte del nostro cervello: l’amigdala”
Fabio rimase a fissare la ragazza.
“Esiste un sistema in grado di modificare il ragionamento del nostro cervello. Ma esistono alcune anomalie. E noi facciamo parte di queste.”
“Chi sono gli altri che ne sono influenzati?”.
“Tutti, Fabio. Anche se loro non se ne rendono conto. Noi, in qualche modo, ne subiamo un effetto ridotto”.
“Come hai fatto a rimuoverlo?”
“Con un vecchio modello numerico che riesce a schermare il segnale di contagio, sono riuscita a recuperarla da un vecchio laboratorio utilizzato per le ricerche a cui avevo partecipato quando tutto era ancora normale”.
“No, quando si accorgeranno che il modello è stato attivato proveranno in tutti i modi a eliminarlo.”
“Come pensi di arrivare al nodo?”
“Attraverso un gioco che conosci bene”.
“Esattamente. Te la senti?”
Fabio si sentiva finalmente sicuro di se stesso.
Finalmente Fabio si sentiva a casa.
Le luci, le immagini, le sagome poco definite dei fabbricati. I suoni metallici di un gioco in cui aveva trascorso buona parte della sua vita.
Si voltò e vide la sagoma della donna che ricordava di aver salvato pochi mesi prima. Ricordava di averla portata nell’ospedale di Second Life per fermare la sua emorragia. Ora sapeva che quello era l’avatar di Simona.
“Dobbiamo prendere un’auto” disse lei, mentre si accingeva a rompere il vetro di una vecchia familiare.
La vide chinarsi sotto il volante per poi metterla in moto.
“Me lo ha insegnato un caro amico. Un giorno lo conoscerai”.
Salirono in auto e percorsero la strada sconnessa fino ai bordi della città.
“Lo vedi quell’impianto là in fondo?”
“Sì. É macchina del fumo.”
“É impossibile. So che è pattugliata dagli uomini del controllo del gioco.”
“Proprio per questo motivo ho portato queste” replicò mentre tirava fuori dalla borsa due tute.
Fabio la vide togliersi la maglia e i pantaloni e rimase incantato dal suo seno e dal suo corpo. Se quello non fosse stato un gioco avrebbe provato quella sensazione per la quale sua madre lo sgridava sempre. In rete aveva letto che si trattava di erezione.
Indossarono le tute. Fabio non riusciva a mettere da parte l’immagine di lei in reggiseno e slip. Abbassò lo sguardo, cercando di nascondere la vampata che lo stava per travolgere.
“Abbassare lo sguardo, Fabio. Non farlo mai. Ricordatelo. Di fronte a nessuno.”
Lui sorrise. Lei gli sorrise di rimando.
Proseguirono in auto fino al limite della recinzione. Simona condusse l’auto fino al cancello principale. Era aperto. La scritta indicava il nome dell’azienda, con rappresentato il logo riprodotto anche sulle tute. Dhk.
Lo stabilimento industriale sembrava abbandonato.
“Vedi anche tu le immagini leggermente distorte?” chiese Fabio a Simona.
“Sì. Dobbiamo fare presto”.
Avanzarono lentamente lungo il corridoio illuminato da poche lampade di emergenza sparse.
“Sento dei rumori”, affermò Fabio.
“Anche io. Provengono dall’esterno. Abbiamo pochi secondi.”
Raggiunsero la sala dei comandi, posta al primi piano del fabbricato. Simona si bloccò davanti all’immagine visualizzata sul monitor.
Qualche istante più tardi la vide anche Fabio. Simona vide la sua testa iniziare a ciondolare violentemente da una parte all’altra.
“Fabio, resta con me. Non è vero. Cercano di destabilizzarti”.
Simona cercò invano di farlo ragionare.
Sentiva i rumori esterni e le interferenze aumentare. Ormai li avevano trovati. Entro qualche minuto li avrebbero prelevati. Fabio non sarebbe più riuscito a comunicare se loro avessero distrutto la scatola nera. E lo avrebbero fatto presto. Pensò, mentre osservava sul monitor la mamma di Fabio piangere.
All’improvviso, all’interno del gioco si aprì una porta lampeggiante.
“È una porta secondaria della rete.”
“Non posso. Io. Ho.”, replicò Fabio, continuando a ondeggiare la testa e fissando il vuoto.
Simona spinse con forza Fabio a oltrepassare la porta. In quell’istante la porta svanì nel nulla.
Aprì gli occhi ed era fuori dal gioco. Di fronte a lei gli occhi di ghiaccio di Sergej. Accanto a lei Fabio, privo di conoscenza.
Simona aprì gli occhi lentamente. Le immagini che vedeva erano ancora offuscate.
Vide accendersi un grande monitor posizionato davanti a lei. Comparve il volto di un uomo.
“Certo che posso. Non devi preoccuparti per il tuo giovane amico. Starà benissimo.”
“Non dovete fargli del male!” urlò Simona.
Nel laboratorio accanto uno scanner ottico e uno scanner celebrale cercava di carpire le informazioni del cervello di Fabio per crearne un fedele backup.
Fabio camminava da solo in una strada polverosa. Il gioco lo aveva sbalzato fuori dalla centrale di Dhk. Non vedeva nessun utente attivo. Nessun movimento all’interno del gioco. Ricordava poco di quello che era accaduto, solo che Simona lo aveva spinto all’interno del gioco, prima che degli uomini disattivassero l’oggetto nero che gli consentiva di ragionare nel modo corretto. Non era abituato a ragionare in modo così fluido, i suoi pensieri erano più veloci, anche se sentiva che c’era qualcosa che gli mancava. Per un attimo ebbe paura di rimanere prigioniero in quella schermata. E nella sua mente si materializzò un altro pensiero: il desiderio, la consapevolezza che per lui sarebbe stata la cosa migliore. Infondo in quel mondo lui non aveva alcun limite, poteva esprimersi, farsi capire come tutti gli altri. Nessuno lo additava o identificava come diverso. Quel pensiero svanì in fretta, allontanato da uno che lo terrorizzava. Cosa avrebbero fatto quegli uomini a Simona? Ripensò al suo corpo sinuoso, al suo modo di muoversi. Sentì salire quella sensazione che iniziava a riconoscere: l’eccitazione. Cercò di lasciar dissolvere il pensiero di quella donna e proseguì per la sua strada. In lontananza vide comparire un fabbricato, un cubo senza alcun particolare di rilievo, un classico elemento geometrico che era abituato a vedere nelle ambientazioni dei vecchio giochi per computer e in particolar modo nel portale che un tempo era stato il preludio ai social network: Second Life.
Cercò una via di accesso e nel lato in ombra notò una piccola porticina appena disegnato. Non vide nessuna maniglia, ma era abituato a quella precisione superficiale nella programmazione dei primi giochi virtuali. Conosceva bene la definizione grafica elevata dei giochi moderni, ma in qualche modo amava quello stile unico dei primi videogiochi. Si allontanò convinto che si trattasse soltanto di un elemento abbozzato nel gioco, ma qualcosa non lo convinceva fino in fondo.
Nessun programmatore del tempo avrebbe mai inserito quella porta in una zona così poco frequentata abitualmente dagli utenti senza dargli un senso e una funzione. Avvicinò il viso alla porta cercando di individuare qualche caratteristica in più. In quell’istante sentì un rumore leggero provenire da oltre la porta e vide accendersi delle luci puntate sui suoi occhi. Di istinto li chiuse, ma un attimo prima che lo scanner ottico si attivasse e rilevasse il segnale che gli era utile perché la porta si aprisse di scatto. Fece qualche passo all’interno dell’edificio verso quella che sembrava una reception. Una scritta sulla parte bassa del bancone recitava: tempio dell’anima. Una voce metallica registrata gli chiese le credenziali. Ci pensò qualche istante e le recitò. Una linea luminosa gli indicò la strada da seguire, lui la seguì e lo condusse in una sala allestita con banchi simili a quelli di una chiesa con tanto di inginocchiatoi in velluto. Di fronte a lui vide un altare senza fiori, né decorazioni. Le luci sulle pareti riproducevano l’effetto dei rosoni di una chiesa gotica che ricordava di aver visto da qualche parte. Seduto sul primo banco vide un uomo. Fabio avanzò lentamente. L’uomo seduto era vestito di nero, l’età che riuscì a percepire era intorno ai quarantacinque anni.
“Ciao. Come ti chiami?” chiese Fabio.
L’uomo ricambiò il suo sguardo, poi lo riabbassò fissando l’inginocchiatoio.
“Ho bisogno di aiuto. Devo salvare una persona a cui voglio bene. Si chiama Simona. É una ricercatrice.”
Vide l’uomo rialzare lo sguardo e fissarlo, ma non rispose.
“Perché sei qui, in questo gioco?”
“Quale gioco?” rispose l’uomo.
“Ricordo solo di aver perso conoscenza e di essermi risvegliato in questa realtà.”
“Dov’eri quando è successo?”
“Chartres. Cattedrale di Chartres”
“Ecco dove avevo visto questi rosoni, sul libro di scuola”, disse Fabio.
“Comunque io chiamo Davide.”
L’infermiere entrò nella stanza per controllare il paziente che un anno prima era stato portato in condizioni critiche e che da allora era rimasto in coma. Pochi minuti prima aveva sentito il primario dell’ospedale parlare con un noto esperto di neurologia. Il concetto che era stato chiaro, entro pochi giorni avrebbero valutato l’ipotesi di staccare la spina. Nessun parente lo aveva cercato e il quadro clinico era stabile da troppo tempo. L’uomo si chiamava Davide Porta.
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