“El amor imperfecto”: L’autrice Sara Rattaro ci racconta la nuova esperienza sul mercato spagnolo dopo il successo in Italia di “Non volare via”

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Esce oggi sul mercato spagnolo “El amor imperfecto”, della bravissima Sara Rattaro, che è stata già nostra ospite per presentarci i suoi romanzi “Non volare via”, da cui è tratta la versione spagnola, e “Un uso qualunque di te”, due grandi successi che continuano ad attrarre nuovi lettori. Un fenomeno che sembra non volersi arrestare, ma che varca i confini. Sara ci racconta di questa nuova avventure e ci regala alcune succosissime anticipazioni. Ecco l’intervista:

Cosa si prova nel vedere il proprio libro pubblicato in una lingua diversa dall’italiano, in questo caso in spagnolo?

Emozione e soddisfazione. Sono felice ma in modo molto costruttivo. Il lavoro è stato tanto e intenso e finalmente viene ripagato non solo con il successo di Non volare via in Italia ma con una promettente edizione in Spagna. Non potrei chiedere di più, faticare per la cosa in cui si crede non ha prezzo. È un grande privilegio.

Cosa ti aspetti da questa nuova avventura spagnola?

Di crescere come scrittrice e come donna. Potermi confrontare con un nuovo pubblico e nuovi lettori ma anche con tradizioni e abitudini da cui poter trarre nuove idee ed esperienze mi galvanizza. Spero di poter vivere la Spagna con una promozione attiva.

Hai tanti fans che ti seguono e non solo perché sei una brava scrittrice, ma perché in qualche modo si sentono parte della tua avventura. Quanto ti rende orgogliosa questa simbiosi tra te e i tuoi lettori?

Moltissimo perchè credo che, se c’è stata una cosa in cui sono stata brava è stata proprio questa, coinvolgere i miei lettori e far capire loro quanto siano importanti per me.

Immagini il tuo libro tradotto in inglese e che sbarca anche sul mercato americano e nord europeo? Ci stai pensando?

‘Un uso qualunque di te” è stato tradotto in nove lingue e spero che “Non volare via” segua le sue orme. Certo il mercato anglosassone è in assoluto il più difficile e arrivarci sarebbe un traguardo impagabile.

Stai lavorando a un nuovo libro? Quando potremo leggere un nuovo romanzo?

Certamente! A fine estate lo troverete in libreria. Ora sono coinvolta nella fase di revisione. Sarà una storia forte di quelle che spero facciano discutere.

Still Alice di Lisa Genova, sta per diventare un film. Immagini “Non volare via” sul grande schermo?

Adoro Lisa Genova e non vedo l’ora di vederlo. Sarebbe una cosa bellissima alla quale però stiamo lavorando. Un uso qualunque è già diventato una sceneggiatura e chissà che presto non mi regali altre gioie.

Ringraziamo la sempre gentilissima Sara per la collaborazione.

Recensione libro “I segreti del linguaggio del corpo” e intervista all’autore Marco Pacori a cura di Amelia Tipaldi e Daniele Mosca

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“I segreti del linguaggio del corpo” di Marco Pacori è un libro che con una assoluta semplicità svela principi complessi del comportamento degli uomini. Il testo è suddiviso per aree che man mano accompagnano il lettore alla scoperta dei segreti del linguaggio del corpo. Si inizia con una panoramica per scoprire le ragioni scientifiche, i principi di funzionamento del cervello e in particolar modo della parte che da origine ai segnali: l’amigdala. Nel libro vengono spiegati concetti importanti come lo spazio prossemico, quello spazio che nel dialogo tra due persone varia in funzione della tipologia di rapporto ed è minore quanto più il rapporto è stretto e come imparare a osservare i comportamenti per capire il significato dei segnali non verbali. Ci sono numerosi esempi visivi che descrivono come cogliere i segnali dal primo incontro, dal modo di camminare allo sguardo, dalla stretta di mano alla postura dell’interlocutore, poiché ognuna di queste gestualità può determinare e specificare le intenzioni, come quelle di voler delimitare il proprio territorio, analizzando le similitudini con il comportamento degli animali. Man mano che la descrizione di questi segnali prosegue, si entra sempre di più nei meccanismi cerebrali che hanno luogo durante il dialogo, raccontato con semplicità come individuare principi di ansia, paura o fastidio, fino a quelli di piacere, attenzione e interesse. Ma la cosa più importante è la correlazione sulle modalità di utilizzo come regolatori della conversazione stessa per renderla più piacevole e per rendersi maggiormente attraenti. Viene evidenziata l’importanza delle sfumature dei segnali inviati durante il dialogo, poiché dietro queste si nascondono i pensieri e le opinioni dell’interlocutore. L’analisi di tutte queste informazioni porta il terrore a cercare di capire qualcosa che a suo modo appare affascinante: la menzogna. E’ un po’ il fulcro del libro, quello in cui si spiega come mettere in pratica gli insegnamenti per svelarle, semplicemente con l’osservazione. Questo libro è un viaggio nella psicologia dell’uomo, nelle sue reazioni più elementari, eppure fondamentali per i rapporti sociali in cui ci si deve relazionare. Esempi concreti, come l’utilizzo di queste tecniche a scopo terapeutico, come da parte di uno psicologo o medico, agenti di polizia, maestri, fino ai semplici discorsi tra persone comuni. Ogni movimento del corpo racconta dei segreti, anche a se stessi. Questo libro racconta con disarmante semplicità la tecnica e la possibilità di utilizzo dei segnali non verbali ed entra nel merito delle varie tematiche con dovizia di particolari e con esempi concreti. C’è un mondo in ogni aspetto descritto in questo testo, l’insieme permette di vedere il prossimo come una miniera di gesti che normalmente non riusciremmo a notare e ad ampliare la comprensione dei messaggi che gli altri inviano, pur senza esserne coscienti. Un testo intrigante e interessante, adatto a tutte le tipologie di lettori. Scritto in modo comprensibile e scorrevole, con le illustrazioni che aiutano nella spiegazione. Assolutamente da leggere.

Abbiamo posto alcune domande a Marco. Ecco l’intervista.

Capire in anticipo quello che pensa il proprio interlocutore sicuramente porta notevoli vantaggi ma a volte non sarebbe meglio non saperlo?

C’è un’unica relazione in cui é consigliabile tenere alcune informazioni per sé:  il rapporto di coppia. In questo contesto venire a sapere dei sentimenti o di dettagli sessuali di un legame precedente potrebbe ferire. Così, in questa situazione potrebbe rivelarsi svantaggioso leggere nel comportamento dell’altro, specie se la lettura avviene in modo superficiale o riduttiva.

L’interpretazione dei segnali del corpo va fatta, infatti, all’interno di un contesto: se ad esempio, riferendoci all’esempio sopra, notiamo che il nostro partner si passa la lingua sulle labbra (un segno di piacere) quando vede la foto di un ex, potremmo provare gelosia ritenendo che provi ancora dei sentimenti. Tuttavia, potrebbe averlo fatto solo perché questa persona le ha risvegliato un ricordo piacevole e non perché attualmente ne sia ancora innamorata.

Negli altri rapporti interpersonali é invece auspicabile capire cosa passa nella mente dell’altro e se quello che dice coincide con ciò che pensa.

Dopo avere riconosciuto le proprie emozioni e’ possibile mascherarle?

Se proviamo un’emozione questa innesca una reazione immediata e istintiva; questa reazione provoca una determinata espressione del volto e dei  movimenti del corpo (come un sollevamento delle spalle nella paura o una contrazione delle mascelle nella rabbia). Possiamo cercare di inibire queste manifestazioni, ma qualcosa trapela comunque: in questo caso, assisteremo ad una microespressione (un atteggiamento che compare sul volto per circa 1/25 di secondo) o ad un’espressione soffocata (che dura più a lungo, ma l’espressione é solo parziale).

I neonati hanno da subito la capacità di riconoscere le espressioni sul volto della madre? Quando perdiamo questa capacità?

La ricerca e le osservazioni sullo sviluppo e sull’acquisizione delle abilità sociali hanno dimostrato che queste insorgono molto precocemente; La ricerca scientifica lo dimostra chiaramente. Ad esempio, Tiffany Field assieme ad altri colleghi ha notato come i neonati prestino una maggiore attenzione visiva quando un volto cambia espressione, suggerendo così implicitamente che questi ultimi sono in grado di discriminare la mimica facciale poco dopo la nascita. Inoltre, Charles Nelson con precise misurazioni ha appurato che i neonati sono in grado di distinguere una faccia arrabbiata da un volto felice. Mikko PeltolaJukka Leppänen e altri studiosi, dal canto loro, hanno appurato, registrando l’attività cerebrale, che i bambini di sette mese sono in grado di cogliere la mimica facciale della paura.

Queste capacità aumentano con l’esperienza; decrescono però con l’invecchiamento in linea con la perdita di altre abilità cognitive e questo ha inizio attorno ai 50 anni. Il declino é attribuito al fatto che una struttura essenziale nel riconoscimento delle emozioni (la corteccia prefrontale) si deteriora con l’età molto più rapidamente di altre regioni cerebrali.

Questa perdita di “acume” non riguarda solo le espressioni facciali, ma anche gesti, posture, movimenti del corpo e caratteristiche vocali delle emozioni e sembra riguardi più le emozioni negative (come rabbia, tristezza, paura e disgusto) che quelle positive (felicità, entusiasmo, ecc.).

Probabilmente conosce il telefilm Lie To Me, in cui il protagonista è capace di usare le tecniche descritte sul libro fin quasi all’esasperazione. Fino a che punto queste tecniche sono utilizzabili dal punto di vista scientifico, o nel merito di una indagine? Qual è la massima attendibilità che si può raggiungere?

Lie to me ha come consulente scientifico Paul Ekman, la massima autorità nello studio delle espressioni facciali; tuttavia é fiction e come tale deve innanzitutto destare l’attenzione e la curiosità dello spettatore. Ne é derivato così un compromesso in cui alcune conclusioni di Cal Lightman  (protagonista principale del telefilm) sono verosimili; altre sono molto enfatizzate. Nel riconoscimento della menzogna tutti gli studiosi sono d’accordo su un punto: i segnali, per lo più non verbali, su cui ci si basa, sono indizi, non segni inequivocabili di bugia. In alcune puntate sembra che invece sia possibile, non solo di dare un’interpretazione certa, a partire da un solo comportamento o espressione facciale, ma che da questa si possano trarre tutta una serie di conclusioni all’apparenza logiche e coerenti: questa però non é scienza, ma intuizione.

In ogni caso, tecniche di questo tipo (il riconoscimento delle micro-espressioni facciali, alcuni segnali del corpo e degli indizi linguistici) vengono utilizzati dall’FBI o dall’Interpool per distinguere la verità dalla menzogna e con un buon grado di attendibilità. Naturalmente, non basta: é necessario che questi indizi vengano suffragati da prove concrete.

Un esempio di come il linguaggio del corpo possa rivelarsi utile nelle indagini criminali ci viene da una ricerca degli  psicologi Stephen Porter e Leanne ten Brinke.

Questi studiosi, analizzando il comportamento non verbale dei familiari di persone scomparse in 78 appelli diffusi in TV hanno scoperto che chi parlando del proprio congiunto esprimeva, anche per qualche istante, un’espressione di disprezzo e un ghigno molto probabilmente era responsabile della sparizione. Prendendo come spunto questa scoperta ho esaminato numerose interviste di Sabrina Misseri e Salvatore Parolisi in relazione alla morte di Sarah Scazzi e di Melania Rea. In entrambi i casi, riportando la mia analisi e le conclusioni nel mio libro “Il Linguaggio della Menzogna” ho rilevato nella prima micro-espressioni di disprezzo e rabbia parlando della cugina e disprezzo e un sorriso mal celato nel secondo quando raccontava della sparizione di sua moglie Melania.

Secondo lei in politica è possibile che il segnale non verbale possa essere utilizzato per ampliare il consenso mediatico tramite le televisioni?

Si vocifera che Obama,  il presidente americano, abbia usato in modo intenzionale particolari  gesti e comportamenti per indurre l’elettorato a scegliere lui. In ogni caso, é ormai risaputo che politici e manager “vanno a scuola” di linguaggio del corpo per migliorare la propria immagine, saper comunicare in maniera più efficace e soprattutto persuasiva.

E’ quindi difficile vedere un politico durante un dibattito o un confronto in TV fare segnali negativi, come chiudere le braccia, incassare la testa fra le spalle o assumere posture raccolte: tendono infatti a parlare esponendo i palmi delle mani verso l’alto in segno di onestà e franchezza, a sorridere spesso, a stare con le braccia distese e aperte, a toccare e stringere le mani di chi li va ad ascoltare ai comizi (un comportamento molto accattivante).

La credibilità e la sincerità sono valori giudicati molto importanti dall’elettorato.

Al riguardo, vale la pena di citare l’esito di una recente indagine condotta dagli psicologi

Eryn Newman  Maryanne Garry, Daniel Bernstein assieme ad altri colleghi.

Questi studiosi hanno dimostrato che basta la presenza di un’immagine (anche non pertinente) a fianco di un politico mentre fa i suoi proclami per aumentare la supposta veridicità di quello che dice: un “trucco” tanto semplice quanto efficace!

In che modo i supporti tecnologici possono diventare delle barriere? Sono in grado a lungo termine di modificare la comunicazione non verbale tra le persone?

Telefonini, chat, social network limitano molto il contatto diretto: é inevitabile quindi che anche la comunicazione cambi: ad esempio, si é stimato che é più facile mentire con un sms, tanto che c’é una tendenza piuttosto diffusa a “raccontare” frottole (anche parziali) con questa tecnologia.

Il fatto che l’interazione non sia immediata non significa però che manchino dei messaggi non verbali.; solo che sono di tipo diverso. In uno studio Joseph Walther e Lisa Tidwell hanno rilevato che un email suscita un effetto diverso in rapporto a quando viene mandata. Se riguarda il lavoro e viene spedita la sera o di notte da l’impressione che chi la invia sia una persona sicura di sé; per contro, se é un messaggio amichevole il mittente appare più dominante se la spedisce di giorno.

Anche il tempo di risposta ha il suo peso: una comunicazione di lavoro viene percepita in modo più positivo in orario d’ufficio se é breve; mentre, infastidisce se lo stesso accade di notte. Le cose si ribaltano nei messaggi fra amici: se uno risponde la notte da l’idea di essere cordiale e empatico.

a cura di Amelia Tipaldi e Daniele Mosca

Recensione romanzo “Non volare via” e intervista all’autrice Sara Rattaro

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“Non volare via” è un romanzo sofferto, ricco di momenti emozionati e spunti che fanno riflettere. E’ una storia amara, che ha un retrogusto di vita, di speranza. E’ un viaggio negli istanti più importanti dei protagonisti, interlacciati, fusi gli uni con gli altri. Eppure uniti. E’ la storia di un bambino, Matteo, un bambino affetto da sordità sin dalla nascita, e della sua famiglia, che deve imparare a vivere e a insegnare a vivere nonostante questo problema. La scrittrice Sara Rattaro racconta le crisi, i sogni infranti, e le paure dei genitori, nel loro evolversi e crescere. Descrive un intreccio di sensazioni, amori, tradimenti, delusioni e rabbia. Sullo sfondo c’è la speranza, e un amore incondizionato che sopravvive nonostante tutto. I personaggi  che Sara disegna sembrano vivi e hanno le contraddizioni tipiche di ognuno di noi. Ci si affeziona e non si riesce a smettere di leggere fino a quando non si scopre il finale. “Non volare via” è un bel romanzo, intenso e profondo, emozionante e attuale ed entra nel vivo del rapporto tra genitori e figli, alla reazione di fronte a una delle problematiche che mettono a dura prova i nervi e le emozioni. E’ un viaggio difficile, che lascia ferite, ma che, a modo suo, riesce a far sognare. Un parallelismo delle regole degli scacchi, applicati alla vita. La tensione e la velocità della narrazione lo rendono anche decisamente gradevole nella lettura, ben scritto, sia nella tecnica narrativa, che nello stile.

Che origini ha la storia che racconti nel romanzo “Non volare via”?

Ho iniziato a scriverla mossa dal grande desiderio di raccontare una storia al maschile. In un secondo tempo è arrivato Matteo e il suo mondo silenzioso. Le due cose insieme sono state esplosive.

Come hai costruito i personaggi, così vivi e intensi?

Sono loro che hanno trovato me. Nella mia testa c’era un storia che vibrava e i personaggi erano limpidi e reali. Il segreto è quello di non creare degli eroi ma persone comuni che sanno diventare speciali come chiunque altro.

Qual è l’equilibrio più giusto tra tecnica narrativa e passione per la storia che si sta raccontando?

Credo che un equilibrio ci debba essere ma io non l’ho ancora trovato, per ora è quasi tutta passione!

Hai fatto molte ricerche per riuscire a descrivere così bene la patologia che descrivi nel libro?

Si molte. Era giusto e rispettoso nei confronti di chi poteva immedesimarsi nei protagonisti non solo per i miei lettori.

La tua storia mi ha fatto venire in mente i romanzi di Lisa Genova, scrittrice americana che ha analizzato problematiche come Alzhaimer e Left Neglect, anche lei ha utilizzato una bella storia per raccontare delle patologie vere, facendo capire quasi dall’interno cosa si prova. Ritieni che questo tipo di racconti possano essere utili ai lettori anche a conoscere realtà di cui hanno solo sentito parlare?

Adoro Lisa! Credo di si, spesso il romanzo può essere l’occasione di parlare di problemi “sconosciuti”.

Come è nata l’idea di applicare le regole degli scacchi alla tua storia, e alla vita in genere?

Avevo bisogno di raccontare la straordinarietà di Matteo in modo concreto e non solo a parole. Così sono arrivati gli scacchi e tutte le regole che assomigliano tanto a quelle della vita comune.

Sandra e Camilla, sembrano due lati della stessa medaglia, sono poi così diverse?

In ogni donna c’è un pò di Camilla e un pò di Sandra. È la vita che ti porta a scegliere chi essere ma non esiste nulla di più poliedrico dell’animo femminile.

Uno dei temi fondamentali del romanzo è l’educazione dei figli, in che modo gli amori “sbagliati” dei genitori possono condizionare gli aspetti psicologici dei figli, quindi dei genitori di domani?

Credo che la cosa più importante per un figlio sia avere dei genitori sereni e non sempre salvare una famiglia per forza significa trovare serenità. Certo è doveroso provarci!

La diversità è uno dei problemi che affliggono le nuove generazioni, e forse così è sempre stato. C’è una maggior consapevolezza di questo aspetto tra i giovani? In che modo la letteratura può aiutare?

Abbiamo molto da fare. La diversità è sempre negli occhi di chi guarda. La scuola, la famiglia e le comunità hanno una grande responsabilità e molto lavoro da fare. La letteratura è di grande aiuto.

Intervista a Carlo A. Martigli, autore de “L’Eretico”

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Abbiamo recensito il romanzo L’Eretico e posto alcune domande all’autore Carlo A. Martigli.

Ecco l’interchattazione:

Nel tuo ultimo libro tratti un tema complesso, quanto ti è costato in termini di impegno e come hai gestito la fase di reperimento delle informazioni?

In tutti i miei romanzi, L’Eretico compreso, il lavoro di preparazione è lungo e procede insieme alla stesura del romanzo. Più o meno su dieci ore di lavoro almeno otto le impiego per ricerche, che significano anche viaggi nei luoghi che racconto e biblioteche universitarie alla ricerca delle fonti. Ma la ricerca più lunga è quella che faccio al mio interno, per scoprire le emozioni, i sentimenti e le passioni che cerco poi di trasferire nella storia che racconto.

Affronti con molto impeto il tema per rapporto con le tre religioni, e con Gesù. Tu che rapporto hai con lui?

Io sono un fan di Gesù e L’Eretico è come se fosse dedicato a lui. Come uomo, per le cose che ha detto, per quella carica rivoluzionaria che lo ha visto contrapporsi alla vecchia legge dei suoi padri, per l’esempio continuo e assolutamente attuale del suo vangelo, con la “v” minuscola, cioè il suo annuncio. Lui è stato un vero “eretico” ovvero uno che ha scelto di combattere la sua battaglia. Fu lui a esempio che disse per primo che è la legge che deve adeguarsi agli uomini e non viceversa, in pratica dando alla giustizia il predominio sulla legge. Più rivoluzionario di così…

Molti romanzieri ipotizzano spesso una continuità dell’Ordine dei Templari o similari, vedi qualcosa di simile in ordini come quello di Malta o negli ordini cavallereschi a cui fa capo la Regina di Inghilterra?

Sono tutte balle. Gli ordini cavallereschi sono espressione del loro tempo, come oggi possono essere, nel bene e nel male organizzazioni come il Rotary o il Lyons. Erano ordini per lo più militari, di monaci guerrieri, come appunto i Templari o i Cavalieri Teutonici, che ogni tanto qualche cialtrone vuole ripristinare. L’unica associazione che, quanto meno nei principi, può ricordare i valori etici degli antichi ordini è la Massoneria, erede spirituale e storica del templarismo. Non certo quella degli affari o della P2, ovviamente, ma quella speculativa.

Ferruccio de Mola, uno dei protagonisti più importanti della storia de “L’Eretico” è una figura enigmatica. Come hai costruito questo personaggio, e quanto c’è, se c’è, di te?

Ferruccio de Mola, come figura storica, è un mio antenato, Ferruccio de’ M’Artigli, un capitano di ventura che combatté al fianco di Robert Stuart d’Aubigny a cavallo tra il XV° e il XVI° secolo. Nel romanzo L’Eretico è un tipico uomo del Rinascimento, diviso tra il pensiero e l’azione, tra l’onore e l’amore, con tutte le debolezze e le virtù dell’animo umano. C’è molto in lui, di me, e anche delle mie idee. E’ come se mi fossi trasportato in quel tempo e mi fossi chiesto come mi sarei comportato.

L’amore svolge un ruolo importante nella storia, è una trasfigurazione dell’amore per la cultura, oppure hai volontariamente evidenziato questo aspetto come rapporto tra uomini, uomo o donna che siano?

L’amore è fondamentale, è il motore della vita, senza di esso la vita stessa non avrebbe senso. E’ l’archetipo da cui discende tutto. Per questo, nonostante l’azione e la storia, in tutti i miei romanzi svolge un ruolo da protagonista. E come dici giustamente non solo nel rapporto tra donna e uomo, ma tra tutti gli esseri umani. Ne L’Eretico, la stessa storia di Gesù, quella mai raccontata in nessun romanzo al mondo, quella degli anni che vanno dai dodici ai trenta, non è altro che un racconto d’amore.

Quanto c’è di vero nella storia che hai raccontato? Mi riferisco al documento principale su cui la storia di base.

Come accennavo prima, non esistono prove certe di quanto ho raccontato nel romanzo, ma vi sono pesanti indizi, e non soltanto storici, che rendono la mia storia molto più verosimile di quel poco, quasi niente, che ci hanno raccontato fino a ora. E che rendono la figura di Gesù e il suo annuncio molto più logico e attuale. Inoltre c’è un fatto straordinario, quasi incredibile, ma che posso dimostrare vero. Possiedo tre pietre, comprate cento anni fa da mio nonno materno nella zona della Palestina, e delle quali ho scoperto l’origine dopo aver terminato L’Eretico. Esaminate da un esperto internazionale e portate in foto per conferma della traduzione nella valle di Ladakh, nell’India settentrionale, da dove parte la mia storia. Sono state scritte in antico pali, in un periodo tra il 1200 e il 1600 e riportano il mantra del Buddah compassionevole, Om Mani Padme Um, spesso riferito al profeta Gesù. Che cosa ci facevano in Palestina più di cento anni fa? Chi le ha portate? Forse il monaco Ada Ta? E’ davvero una strana coincidenza.

Se un giorno venisse scoperto che le tre religioni si fondano sugli stessi principi, secondo te gli uomini riuscirebbero a trovare una forma di pace priva di rivendicazioni?

Che le tre religioni monoteistiche si fondino sugli stessi principi è un dato di fatto, storico e religioso. Il fatto è che gli uomini vogliono manipolare a loro uso e consumo e per i loro scopi le presunte differenze. E non solo oggi, ma da secoli. In nome di Dio, ciascuno del proprio, si sono commesse e si commettono ancora le peggiori atrocità. Andare verso l’unificazione toglierebbe da un mano il potere alle gerarchie ecclesiastiche dall’altro eliminerebbe la scusa di uccidere nel nome di Dio. Porterebbe una speranza di pace, il che sarebbe devastante per un mondo dominato dalle lobby delle armi e della finanza e dei loro intrecci.

Dopo aver letto e scritto dei rapporti tra Papato e Impero, tra Medici e Borgia, come leggi i fatti di attualità legati alle dimissioni di Papa Benedetto XVI?

Una mia amica scrittrice, Sabrina Minetti, mi ha detto, scherzando ovviamente, che è stata la lettura de L’Eretico a convincere Ratzinger a rinunciare alla tiara. Scoprire il passato, indagare su di esso, serve proprio a comprendere meglio il presente. Per cui, la rinuncia di Ratzinger, fatte le differenze superficiali con le lotte di potere che avvenivano all’interno della Chiesa dei Borgia e dei Medici, non sono che l’espressione di altre battaglie. Questo lo ha detto il papa stesso, non io.

In una precedente intervista ci hai raccontato della possibilità che questa storia potesse diventare un film, ci sono delle novità? Ci sono nuovi progetti in cantiere?

Sì, c’è un qualche interesse oltre oceano, qui in Italia il cinema è morto, si fanno per lo più commedie idiote per un pubblico idiota. Dicono che manchino i soldi, ma mancano soprattutto le idee e la cultura. I miei libri sono a Hollywood, in questo periodo, in lettura e questo mi fa molto piacere. Ma, come dicevo, tra l’apprezzamento e la realizzazione, c’è di mezzo il mare, anzi l’oceano. La differenza tra qui e gli Usa e che nei paesi anglosassoni il gusto della lettura intelligente e divertente è molto superiore al nostro. Leggere rende liberi, noi leggiamo poco, ed è per questo che ci meritiamo anche i risultati di queste elezioni, che sembra il caos che precede ogni disastro e ogni dittatura.

Ringraziamo Carlo A. Martigli per la gentile collaborazione.

Intervista alla vincitrice del Premio Lunezia, Amélie

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Amélie è la vincitrice del Premio Lunezia, briosa, affascinante e musicalmente elegante, riesce ad appassionare con una voce suadente. Amélie ha risposto ad alcune domande. Conosciamola meglio nella nuova interchattazione!

Partiamo dalla vittoria del Premio Lunezia, che soddisfazioni ti ha dato, e quanto ha contribuito a darti ancora più forza per raggiungere i tuoi obiettivi?

Il Premio Lunezia è stata fino ad ora la più grossa soddisfazione ottenuta in campo musicale. Il Premio che viene conferito è sia per il valore musicale che letterario e ciò che viene preso in considerazione è l’artisticità a 360 gradi, per cui vincerlo è stato un grandissimo onore.
Poi l’esibirsi davanti a 15 000 persone sullo stesso palco sul quale salgono grandissimi artisti come Niccolò Fabi, Subsonica, Arisa, Nomadi, Giovanardi ecc è una emozione che mi porterò sempre nel cuore. L’essere stata apprezzata è stato qualcosa di splendido, ti da una maggiore fiducia in te stessa e ti da l’energia per andare avanti e pensare che forse sei sulla strada giusta e ciò che fai può davvero essere apprezzato da molti. Dalla vittoria del Premio Lunezia ho cominciato a capire che ci sono persone che credono davvero a questo mio progetto e che sono disposte a sostenermi con passione e determinazione.

Qual è la musica che ti piace, e cosa ti ha spinta a iniziare a suonare?

Amo tutta la musica, dal pop al rock, dal soul al funky, da tutta la musica anni 80 a quella anni 70, dalla classica all’opera … (l’unico genere che non sento molto è il trash metal) Il mio grande amore è Michael Jackson (che per me rappresenta la Musica e l’Arte) ma adoro anche Noa, Eva Cassidy, i Beatles, I Genesis, gli Air, i Queen, i Depeche Mode, i Muse, Elisa, Battisti, Gaber, Endrigo, Fabi ecc ecc.
Mi ha spinto ad iniziare a suonare il vecchio pianoforte che avevo in casa….fin da bambina ho nutrito grande curiosità per quel giocattolone meraviglioso e a furia di giocarci ho intrapreso questa strada….

Credi che la musica possa essere un modo per reagire al decadimento culturale a cui capita di assistere?

Penso che la musica possa essere un importante strumento di “rivoluzione” e “protesta”, ma anche di pura “poesia” ed “emozione”, un modo per raccontare se stessi e condividere il proprio vissuto con altre persone che potrebbero rivedersi in ciò che esprimi. E’ come se attraverso la musica si arrivasse a rendere “percepibili” cose che stanno in un’altra dimensione….è come toccare e comprendere qualcosa che sta al di la dei nostri sensi, della nostra realtà. E questo in generale è una prerogativa che appartiene a qualsiasi forma di arte… e l’arte già di suo è sempre una necessità di reazione al decadimento culturale.

La tua musica è briosa, affascinante, come il personaggio che presenti al pubblico. Quando scendi dal palco, sei la stessa?

Grazie per l’affascinante e il briosa … io sono una pazza giocherellona ma anche romantica e malinconica e credo che questi due aspetti siano percepibili anche nel tipo di musica che propongo. Sul palco riesco ancora di più ad esprimere me stessa, perché al contrario di quello che si possa pensare, sono convinta che il momento in cui devi toglierti qualsiasi tipo di maschera sia proprio quello in cui sali sul palcoscenico davanti al pubblico…Sono profondamente convinta che solo essendo “vero” puoi riuscire a generare “emozioni”. Infondo la musica deve essere un modo per esprimere sinceramente se stessi, non un modo per costruirsi ed apparire. E’ una forma di comunicazione e mancherebbe di significato se si puntasse sul mostrare qualcosa di diverso da ciò che siamo realmente.

Panorama musicale italiano, secondo te viene dato troppo spazio a mostri sacri che a volte han poco da dire, rinunciando così a puntare su giovani di talento?

Sinceramente penso che in Italia si stia puntando poco sia su mostri sacri che su giovani di talentoL’unica cosa su cui si punta è la spettacolarizzazione televisiva alla quale sono assolutamente contraria. Potrebbe funzionare… ma solo se messa in secondo piano rispetto alla qualità musicale. Oggi si punta più sulla costruzione di personaggi che sul messaggio e sul talento. E puntualmente i personaggi costruiti si sgretolano con il tempo andando nel dimenticatoio nel giro di pochi anni… ed ecco che si parla di crisi della discografia…ma è un discorso complicato, ci vorrebbe un convegno di 1 mese per analizzarlo a fondo

Vedrai Sanremo? Cosa ne pensi di questo spettacolo?

Si almeno la prima serata credo di guardarla. Sanremo è un grande baraccone…che però rappresenta la principale strada per farsi conoscere al grande pubblico anche se più passa il tempo e più sono convinta che non sia l’unica vera chance per tentare di raggiungere qualcosa di importante. Ultimamente a mio parere anche qui purtroppo si sta puntando fortemente sulla spettacolarizzazione lasciando come al solito la musica in secondo piano.
Quest’anno farò il tifo per Simone Cristicchi tra i Big e per Renzo Rubino tra i giovani

Oltre al già citato Premio Lunezia, esistono, a tuo avviso, concorsi canori seri e ancora in grado di far emergere nuovi talenti?

In base alla mia esperienza posso dirti che fino ad ora il Premio Lunezia è stato davvero il top…e lo consiglio a tutti coloro che vogliono vivere qualcosa di “forte” che può dare in qualche modo una buona visibilità. E’ un premio serio, riconosciuto, organizzato con grande professionalità e qualità.
Poi suggerisco anche il Premio Poggio Bustone (Lucio Battisti)…anche questo è un concorso che punta molto sulla musica, organizzato in maniera pulita e pieno di grandi emozioni da vivere.
Mi sono trovata molto bene anche al Biella Festival. Anche se non li ho mai tentati, da quello che ho potuto vedere e sentire, credo siano molto validi anche il Bianca D’Aponte e Musicultura. Queste esperienze in generale penso siano un modo per mettersi alla prova e crescere….anche se in questo momento la mia priorità è il lavoro sul secondo disco.

Concludo chiedendoti qual è, secondo te, la situazione della musica italiana emergente? Ci sono artisti che ti piacciono?

La musica italiana credo abbia due facce:
– quella ufficiale: in grosso decadimento, con scarsa qualità nella maggior parte dei casi, con poca varietà a livello di personalità reali e vere.
– quella ufficiosa e di sottobosco: in fermento, ricca di gente interessante e con belle idee, grande creatività e immensa passione.
(Per cui spero che presto si ribaltino le cose ) Ma sono convinta che oggi con lo sviluppo del web il mondo indie abbia grandi possibilità di sviluppo…ormai sui canali ufficiali passano sempre le solite cose…e il pubblico ha bisogno di altro….la gente sta cominciando a reagire…e in quanto strumento democratico il web da la possibilità alle persone di scegliere liberamente e attivamente ciò che desiderano ascoltare, senza nessuna imposizione discografica….
Tra gli artisti italiani odierni che amo ci sono Niccolò Fabi ed Elisa in primis…

Ringraziamo Amélie per la gentile collaborazione. Se volete scoprire ancora meglio il mondo amelitico, ecco il suo sito web

Recensione del disco “Non sono mai stato qui” e intervista all’autore Davide Geddo

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Davide Geddo è un cantautore che sa toccare le corde giuste, l’avevo capito sin da quando ho sentito per la prima volta “Genova”, ma in questo disco si è superato. E con la complicità di un amore finito ha reso ogni nota un fiume in piena e allo stesso tempo un rivolo leggero in grado di scavarsi una strada in una roccia. La prima canzone dell’album “Non sono mai stato qui” è “Venezia”, struggente, con parole appassionate e forti dedicate a una donna ancora amata, che è fuggita via, un giorno come un altro. Descrive un cambiamento, una trasformazione interiore che, tuttavia, non riesce a far dimenticare. La durezza d’un amore che resta lì, a osservare. Come quando ci si guarda allo specchio e ci si scopre diversi, più tristi forse, ma più forti. “Dicono che io” è una canzone introspettiva, che analizza, studia e alla fine parla al cuore della donna che ti ha infranto il cuore, a tratti con durezza, a tratto con delicatezza. Un pezzo che emoziona, racconta, guarda l’amore da un nuovo punto di vista. “Angela e il cinema” è una ballata dall’animo jazz, blues, amara e dolce, con suoni che si intrecciano a parole che rincorrono in un racconto passionale con sfumature carnali. Le contaminazioni della musica popolare si uniscono ai suoni moderni e passionali di chitarra, violino e batteria, il tutto tra rustico e raffinato.  “Tristano” è un valzer popolare, tra la vita che ubriaca fino all’alba. Parole brille e sporche di vino e canti a squarciagola. Una sagra di musica e colori, suoni e canti popolari su melodie avvolgenti. “Stare bene” è una ballata, una passeggiata alla ricerca del senso più profondo di se stessi. Un modo colorato per ritrovare la strada migliore. “Il post amore” è un pezzo travolgente, divertente ed energetico. Un duetto fantastico con la bravissima Chiara Ragnini, che ricama e costruisce trame melodiche funky con la sua voce pura, dolce ed elegante. Una canzone che riesce a dare coraggio. E non è poco. “Equilibrio” è una ballata intima e coinvolgente, emoziona e incanta, con intense parole sussurrate. Soffici come neve. “Dall’amore (interventi di modifica alla viabilità interiore)”, è un pezzo creato come una metafora a suon di musica appassionata e indiavolata. Racconta divagazioni sull’amore, sulla vita, su se stessi, fino all’anima. “La campionessa mondiale di sollevamento pesi” è un dolce richiamo, come persi tra ricordi, lontani, ma che vivono ancora dentro, fanno ombra ai sogni e allo stesso tempo compagnia. In “Piccolina” Geddo sembra richiamare Fred Buscaglione, ravvivandone il sound e rendendolo ancora più dinamico, attuale. Moderno. “Sole rotto” è amara e sognante. E’ un pensiero soffuso, soffice e dolce, che oltrepassa il cielo, la distanza e l’amore svanito.

“Un pugno rotto è una canzone” è un piccolo gioiello. E’ una canzone fragile, delicata e intensa. Non si riesce a smettere di ascoltarla, soprattutto quando ascoltandola ci si sente proprio così, confusi, disarmati. Vittime di quel suono più oscuro. “Nancy” è un pezzo tagliente, ricco di ricordi, passioni che la vita costringe a celare in fondo all’anima. Svela le immagini raccolte come su un album da non riaprire. Un album che si vorrebbe bruciare, senza averne il coraggio. di farlo. “L’astronave di Provincia” è malinconia pura, un amore delicato, che entra senza far rumore. E’ un ricordo lieve, abbandonato tra le pieghe del letto. Un bacio che non si potrà dimenticare, mai.

L’album si conclude la canzone che da il titolo all’album. “Non sono mai stato qui” ha un suono che ipnotizza, che lascia un gusto strano in bocca, che fa sentire come soli di fronti al mare in tempesta, col freddo che entra nelle ossa. Poche luci intorno. E dentro una consapevolezza, ciò che amavi non c’è più. Una lucida solitudine che riesce quasi a far compagnia, diventa parte di te. Ti completa. E mentre il vento continua a soffiare, decidere di tornare a casa. E, forse,di dimenticare.

Un disco da ascoltare e riascoltare, che accompagna, emoziona, sussurra grida. Ubriaca. Un sapore a volte amaro, ma che rimane lì, fa riflettere, sognare e ricordare. I ricordi sono la trama portante dell’intero disco. Ricordi che nascondo lacrime per farsi forza. Per rialzarsi, e non smettere mai di sorridere.

Abbiamo posto alcune domande a Davide:

Le canzoni del nuovo disco sono ispirate a luoghi immaginari, cosa sono per te questi “ non luoghi”?

La musica è una potente macchina del tempo e dello spazio. Consente di rivivere sensazioni perdute o immaginare storie che non si sono potute realizzare. In essa il tempo vola e altera le sue leggi. La canzone non ha la bellezza tangibile di un quadro o di una scultura ma, pur essendo un’arte minore, è l’unico varco temporale che ci permette con la stessa facilità di essere profondamente noi stessi o di immaginarci nei panni di persone completamente diverse. In “Non sono mai stato qui” è mia intenzione sottolineare l’ambigua essenza della forma “canzone” dichiarandone l’assoluta libertà e indipendenza dalla presenza e dall’esperienza che condiziona il quotidiano.

Nell’album c’è una forte componente emotiva e sentimentale, quanto c’è di autobiografico nei pezzi?

Non credo alla musica come esibizione e divismo; credo alla musica come linguaggio, come espressione e come modo di toccarsi. Credo che non si tratti di essere autobiografico in ciò che racconti ma di esserlo in come racconti. Non sono quasi mai al centro delle mie canzoni; mi piace esserne collaterale, magari attore non protagonista. Mi piace essere nei dettagli.

Cosa lega le canzoni Genova e Venezia?

Sono due concetti opposti che finiscono per essere speculari. Venezia è la storia di tutto ciò che non è accaduto tra due persone che si ritrovano dopo un qualcosa che non c’è stato; la canzone inizia con un elenco di situazioni che non si sono realizzate e narra la storia di un viaggio che non si è compiuto. Genova, al contrario, rappresenta un modo di sentire e il forte senso di riscatto che trovo nella musica. In questa logica la bellezza misteriosa e contorta di Genova e quella sognante e unica di Venezia finiscono per specchiarsi come una realtà e il suo sogno.

Le tue canzoni sono come delle polaroid immagini di momenti, quasi scene di un film. Quale di queste fotografie porteresti sempre con te?

La dimensione cinematografica è quella più adatta alle mie canzoni; mi piace accompagnare visivamente dentro una storia, dare un carattere ai personaggi, mi piace romanzare e abbozzare paesaggi. Mi piace essere il regista delle canzoni. In altri casi, e mi viene in mente “stare bene”, il riferimento alla polaroid che tu hai colto mi pare appropriata. Ho i miei tempi nello scrivere; a volte non sono per niente brevi. Ma una volta che sono finiti i brani fanno parte di me e sono sempre con e dentro di me. Non ho scarti; solo idee su cui ritornare.

Quanto conta il mare nelle tue canzoni?

Noi, fortunati, che viviamo il mare abbiamo un doppio orizzonte che si fonde in lontananza. Non si può prescindere da questo mistero che induce umiltà, rispetto e riflessività. Inoltre ho un naturale stupore per tutti quegli elementi naturali che sanno “incantare” lo sguardo come anche il fuoco o le nuvole.

Quali sono gli artisti che ti hanno aiutato a esprimere la tua musicalità?

Per me suonare è quasi l’atto finale e decisivo ma non potrei sentirmi musicista senza essere ascoltatore e appassionato di musica. Lo star system identifica la musica come un mezzo di valorizzazione del talento o, purtroppo spesso, anche solo di contorno ad esso. Ciò ha professionalizzato la canzone ma ha tolto spontaneità, ricerca e spirito di appartenenza; la musica ha perso molto appeal rispetto, per esempio, al computer e alla tv; mondi di cui è diventata componente, perdendo in autonomia e forza. In questo senso collaborare è per me parte stessa dell’essere autore di canzoni. Ritengo di sentirmi dalla stessa parte di chi rivendica per la musica un’autorità e un’autorevolezza che stimoli l’ascolto, aspetto per me sempre prevalente. Da questa parte della barricata mi sento in sintonia con artisti di cui apprezzo l’approccio con la musica e le persone come Zibba, Sergio Pennavaria, Zazza, Michele Savino o Chiara Ragnini, ma la lista per fortuna è lunga e l’unione fa la forza. Di fatto infine è stato molto importante l’incontro con Rossano Villa di Hilary Studio che mi dato sicurezza e confidenza con lo studio di registrazione.

Alcuni dei tuoi pezzi sono ritmati, quasi indiavolati; altri sono più intimi e sussurrati. Quale delle due dimensioni senti più tua?

Vivo la musica come una casa. Ogni tanto sento il bisogno di fare festa, invitare tutti gli amici e passare la serata in allegria; altre volte ho bisogno di rinchiudermi nella mia stanza e parlare un po’ con me stesso. Sento mie entrambe le dimensioni e mi sento a mio agio nello sviluppare entrambe le dinamiche. Non credo che sia il binomio gioia- tristezza a creare un brano che sia degno di essere ascoltato ma so che servono spirito di osservazione, lucidità e feroce autocritica.

Come ti vedi tra dieci anni?

Un po’ cambiato.

Intervista alla scrittrice Barbara Baraldi

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Barbara Baraldi è una scrittrice di successo, autrice di numerosi romanzi di successo come Scarlett e “La bambola dagli occhi di cristallo”, esponente di primo piano del thriller gotico italiano, poliedrica e fantasiosa. Le abbiamo posto alcune domande ed ecco l’intervista che gentilmente ci ha concesso:

Nel romanzo descrivi una Bologna quasi lugubre, ma tra le righe traspare un sentimento intenso. Che rapporto hai con questa città?

Amo Bologna e ho cercato di svelarne i lati oscuri e le contraddizioni fino a renderla quasi uno dei personaggi del romanzo, una dark lady dalle mille sfaccettature.



I personaggi principali di questo romanzo sembrano combattere prima di tutto con se stessi, un conflitto difficile e profondo. Cosa c’è di te nei tuoi personaggi?

In realtà pochissimo. Mi sforzo di seguire la voce dei personaggi, di lasciarli sbagliare e di illuminarne forze e debolezze per renderli vivi, capaci di respirare.



Nella tua carriera di scrittrice riesci a spaziare tra thriller, romanzi per i ragazzi e fumetti, qual è il tuo genere preferito, quello in cui riesci a trovare maggiormente la tua vera anima?

Scrivo quello che mi piacerebbe leggere, senza pensare al genere. In effetti, molti adulti leggono i miei romanzi definiti “per ragazzi” e a volte le storie più cupe sono diventate le preferite dei giovanissimi. Cerco di raccontare una storia e di farlo al meglio.

Quanto è importante lo studio per riuscire a diventare un bravo scrittore?

In realtà penso che la cosa più importante per diventare un bravo scrittore sia leggere. Tanto, e senza escludere nessun genere.


Nel noir l’omicidio è un fattore molto importante. Secondo te perché questo argomento è così attraente per i lettori? Cosa pensi del fenomeno televisivo della spettacolarizzazione degli omicidi reali?

Si tratta forse di quello che Stephen King definisce “allenarsi alla paura”. Leggere di omicidi e orrore quotidiano aiuta a scacciare l’ansia nella vita reale.
Per sfuggire alla spettacolarizzazione degli omicidi reali ho smesso addirittura di guardare il telegiornale. Seguo l’informazione in rete, dove si danno notizie senza banchettare sui dolori della gente.

Nel tuo romanzo si nota una grande attenzione per l’esaltazione della femminilità, quanto ti appartiene questo aspetto?

La femminilità per me non sta nell’abbigliamento sensuale ma piuttosto in uno sguardo, nella consapevolezza della propria forza femminea, nell’esaltazione della propria essenza. Ogni donna è bella, in quanto unica.

Ringraziamo Barbara Baraldi per la gentilissima collaborazione.

Intervista a Zibba, autore dell’album “Come il suono dei passi sulla neve”

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Abbiamo pubblicato la recensione del disco “Come il suono dei passi sulla neve” di Zibba e gli Almalibre. Ecco a voi l’intervista a Zibba per la rubrica interchattazioni:

“Come il suono dei passi sulla neve”, un titolo che evoca ricordi, orme, pensieri. Quando ti volti dall’altra parte, verso l’orizzonte, cosa vedi?

Se per orizzonte intendi qualcosa da raggiungere ti dico che sto bene qui, non devo raggiungere nulla. Il mio passo più importante è quello che farò oggi, ma non so dove mi porterà e nemmeno me ne preoccupo. Mi piace sapere che la vita ce la giochiamo giorno per giorno. Ho smesso di cercare di raggiungere qualcosa. Fortunatamente quello che ho mi basta, o come diceva De Andrè… quello che non ho è ciò che non mi manca ecco…

Poi mi volto, spesso. Dall’altra parte, da tutte le parti. Punti di vista. Importantissimi.

In alcune delle canzoni del disco parli sentimenti, non necessariamente d’amore, ma sembri un po’ più cinico. E’ solo una sensazione?

Non lo so, forse a volte. Credo, spesso, di essere più consapevole che cinico, anche se a volte mi riconosco in un bel bastardo. Ma sai cosa, allenarsi alla felicità è un lavoro. Ogni tanto si inciampa su piccolezze negative, ma serve per darsi una sciacquata. Come quando stai troppo al sole e poi hai bisogno di tuffarti nell’acqua gelata per darti uno scossone.

Hai calcato palcoscenici molto importanti, altri più semplici. Quando guardi la gente dal palco vedi sempre gli stessi sguardi?

Direi di si. La gente che ho davanti quando canto è sempre interessata, attenta, gioiosa. Sono fortunato forse, seriamente. Già solo per il lavoro che faccio. Ma anche perchè non rivolgendomi ad un pubblico specifico conosco un sacco di gente diversa, di età diverse e appartenenze differenti tutti uniti dalla stessa voglia di stupirsi, di lasciarsi emozionare dalla vita. Sono una bella squadra di sostenitori, con un sorriso in faccia e la mano tesa verso l’esterno ad afferrare. Mi piacciono.

Il successo ti spaventa?

La fama mi spaventa. Ma non è cosa per me. Il successo a volte è anche piacevole, almeno nelle piccole cose quotidiane. La fama credo sia pericolosa. Ho conosciuto persone che sono uscite dalla fama non per scelta e con una bella depressione attaccata al collo. A me non tocca, perchè non faccio musica con la quale si diventa famosi. Si ha successo. Come un buon artigiano che fa buone sedie, se si lavora bene si ha successo nel proprio campo, e non è altro che appagante per i propri sforzi.

Il tuo nuovo disco contiene numerose collaborazioni importanti, hai un rapporto più personale o professionale con questi artisti?

Con alcuni ci scambiamo bellissimi e lunghissimi abbracci. Con altri ci sentiamo poco ma sempre con gioia e stima reciproche. Non collaboro con nessuno che non sceglierei come compagno di avventure o come commensale per una buona cena. Sono tutte persone meravigliose, capaci di colorare ed illuminare la vita di chi gli sta attorno.

Quanto ti appartiene la splendida “O mae ma”?

Quando mi appartengono tutte le mie canzoni, forse con un pizzico di pudore positivo. Parla di mio padre, di mio nonno, dell’alluvione di Genova e di decine di altre cose che mi riguardano da vicino. Adoro sapere che con me in quella canzone c’è Vittorio De Scalzi. Mi ha regalato una gioia immensa cantandola con me ed è stato prezioso nell’aggiustare il testo in genovese. Un vero maestro a cui devo tanto, e se non altro sicuramente una vita di sorrisi infiniti.

I librai sono ancora sognatori? E tu, lo sei ancora?

Si, sono un sognatore affamato. Ma ci sono istanti in cui magari si perde la forza, e allora mi piace pensare che i sognatori siano i librai, che custodiscono per noi tutte le parole e le frasi di cui abbiamo bisogno. E magari i poeti sono i fornai, che si alzano presto. Che preparano il pane per tutti noi. Forse la vera poesia sta lì. Nella vita stessa. Nella meraviglia del semplice fatto che siamo qui. Non si può non sognare. Sarebbe un tragico errore.

Ringraziamo Zibba per la gentile collaborazione.

Recensione del romanzo “Ti voglio vivere” e intervista all’autrice Rossella Rasulo

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Il romanzo “Ti voglio vivere” di Rossella Rasulo è fresco, frizzante e ricco di immagini che evocano ricordi. Una lettura perfetta per i più giovani  e per chi vuole concedersi una pausa tra sogni e pensieri. La trama è un vortice di emozioni e sensazioni che portano sino all’anima dei protagonisti. E’ la storia di Mel, Simona e Fabrizio, ragazzi semplici, come tanti, ma complessi allo stesso tempo. Amici e compagni di scuola, alle prese con le prime insidie della vita, le rivalità e le storie d’amore, quelle che non nascono e quelle che esplodono all’improvviso e che sanno far male. I primi tradimenti, sfumati nelle emozioni che quando si è così giovani sembrano più pure e intense, e forse lo sono davvero. La narrazione è fluida e coinvolgente. I personaggi sono accattivanti e affascinanti: Mel è fascinosa nella sua complessità, persino nei suoi difetti e nella sua identità che divide con il suo alter-ego: Queen Bee, la protagonista del suo blog. Simona è ammaliante, rivela un carattere forte e determinato, ma la sua anima è sognante e ingenua. Fabrizio è un personaggio in cui è facile immedesimarsi, il classico bravo ragazzo che si innamora di una donna e le regala la sua anima, senza essere ricambiato, almeno non come vorrebbe. Il suo esatto contrario è Max, l’uomo di cui Simona si innamora e che la metterà di fronte a sfumature della vita che lei ancora non conosce.

“Ti voglio vivere” è una bella storia, una bussola che indica la strada, una macchina del tempo in grado di far tornare ai giorni in cui la scuola occupava la vita, in cui ore di lezione erano spesso noiose e in cui i rapporti con i compagni di scuola erano talvolta difficili. E’ un viaggio che lascia un sapore amaro e dolce allo stesso tempo. Fa ripensare agli amori che nascono e muoiono in fretta, giusto il tempo di una rosa, a quando le amicizie sembravano poter essere eterne, indistruttibili. Questo romanzo riesce a far percepire al lettore il senso del tempo, di come si cambia e di quando siano stati importanti quei momenti, che allora sembravano insignificanti, noiosi. Inutili. Tutto ha un senso, e Rossella Rasulo lo racchiude tra le pagine del suo romanzo “Ti voglio vivere”.

A seguire una breve intervista all’autrice:

Mel è affascinante e intensa, un po’ persa nel suo mondo, mentre Simona è più realista e precisa. Come sono nati questi personaggi?

Mel e Simona sono il risultato della mia personalità e di quella della mia migliore amica quando avevamo la loro età. Ma non sono me e lei. Ho preso alcuni lati dei nostri caratteri e li ho ridistruibuiti sulle due protagoniste creando una miscela particolare. 
Mi sono molto divertita nel mescolarci in questo modo. 
E si è divertita anche la mia migliore amica quando ha letto il libro.

Nella tua vita di scrittrice e blogger di successo hai mai avuto una Queen Bee?


No, ho sempre scritto tutto col mio nome. Non ho mai creato un personaggio. All’inizio usavo un nick, come facevano tutti, ma non per nascondere la mia vera identità. Era solo il modo più comune di gestire un blog. 

Max e Fabrizio, due facce di una medaglia, due personalità molto diverse. È un’antitesi voluta?

Non è un antitesi studiata a tavolino. Credo che ogni ragazza e ogni donna incontri nella sua vita entrambe le tipologie di amori e di amicizie. Trovo che siano tutt’e due importanti per crescere, per capire cosa cerchiamo per noi stessi.

Perdoneresti dopo un tradimento?

Dipende. 
Non esiste una risposta universale a una domanda del genere. Per alcuni è sì, per altri è un no categorico.
Nella stessa vita si può accettare un tradimento e condannarne un altro. 
Credo sia solo una questione di buon senso più che di luoghi comuni.

C’è un’anima comune tra “Ti voglio vivere” e “Mi piace vederti felice?”

Un’anima vera e propria non direi, sono profondamente diversi, anche se entrambi affrontano il delicato equilibrio delle grandi amicizie.

Nel tuo romanzo l’amicizia è un valore importante, che forse vince sui sentimenti e sul sesso. Nella realtà è davvero così?

Continuo a credere che niente sia più potente e imperturbabile nella vita come un’amicizia profonda, perché un vero amico resta a prescindere da quel che succede, mentre un amore, a volte, non sopravvive ai cambiamenti e al tempo.

Qual è la tua posizione nei confronti delle droghe leggere?

Non amo gli stati d’alterazione, tantomeno le dipendenze. Anche solo l’idea di dipendere fisicamente e psicologicamente da una sostanza mi infastidisce. 
Ma è un mio personale modo di vivere.

Uno scrittore serio e preparato deve lavorare molto per farsi conoscere e farsi leggere, così come fai tu, cosa pensi dell’editoria low-cost, che spesso sacrifica qualità a favore della pubblicità?

Ne penso male. Che altro potrei pensare? 
Non mi piace questo lento e progressivo sistema che sta abbassando la qualità di qualsiasi cosa (nell’editoria, nei programmi televisivi, nel giornalismo). 
Non credo che sia compito esclusivo della narrativa quello di educare, ma arrivare addirittura a diseducare mi pare eccessivo. È un vero peccato.

Intervista a “Micol Arianna Beltramini”, autrice del romanzo Vieniminelcuore

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Abbiamo pubblicato pochi giorni fa la recensione del romanzo “Vieniminelcuore” dell’autrice Micol Arianna Beltramini, alla quale abbiamo posto alcune domande per la rubrica interchattazioni.

Nel tuo libro descrivi un microcosmo che ruota attorno ai Navigli, eppure le contaminazioni citate, sia musicali, sia culturali, sono internazionali e molto ricercate. Come ti poni realmente rispetto al mondo che ti circonda?

amo moltissimo la mia milano. e amo moltissimo il mondo che mi circonda. comunque la musica che ascolto e gli autori che leggo sono più stranieri, questo è vero.

Nel romanzo poni molta attenzione al rapporto tra protagonista e la bionda genitrice, credi che nella società moderna i giovani siano morbosamente legati alle famiglie? Credi sia così anche in altri luoghi del mondo?

più che essere morbosamente legati alle famiglie escono di casa molto tardi. la crisi è solo parzialmente responsabile del fenomeno, e sì, in italia è diffuso molto più che all’estero.

Nel romanzo parli delle tue esperienza amorose, dei tuoi sentimenti. In cosa ti senti più legata alla protagonista da questo punto di vista?

nel fatto di pensare che l’amore sia un’altra cosa. le relazioni ‘transitorie’ si prendono con divertimento e affetto, cercando di impararne il più possibile, ma non bisogna confondersi.

La “luce verde” è un’entità che nella vita tendiamo a ignorare lasciando che prevalga la razionalità?

la luce verde in realtà è una specie di coscienza, quindi è più razionale che istintiva..

Leggendoti mi è venuta in mente una domanda: le donne pensano davvero così tanto?

io sono tra quelle che pensano meno, figurati.

A quale tipo lettore consiglieresti “Vieniminelcuore”, e che tipo di pubblico ti piacerebbe conquistare con i tuoi prossimi lavori?

vieniminelcuore va bene per tutti, ma soprattutto per chi ha intorno ai trent’anni. uomini e donne, non fa differenza. per il futuro.. non ci voglio pensare. ho scritto sei libri in sei anni. mi va di riposare un po’.

Quanto è importante lo studio per riuscire a realizzare un buon libro? C’è un romanzo che sogni di scrivere?

io non scrivo romanzi per lo più. il racconto è la mia forma principe. devo sforzarmi tanto per scrivere un romanzo, il tempo di progettazione si allunga in modo ridicolo. sogno una raccolta di racconti, un’altra. prima o poi la scriverò.

Ringrazio Micol per la disponibilità e gentilezza