Il deserto mi separa dalla mia vita

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Il deserto mi separa dalla mia vita.
Quella vecchia, fatta di guerra.
Degli occhi di mia madre,
che non poteva darmi di più.
I segni sulla pelle,
raccontano del mio viaggio.
Del male che mi è rimasto addosso.
Vorrei una vita vera,
in cui potermi guardare allo specchio.
Oltre le cicatrici.
Non riesco a sentirla ancora,
la puzza del sangue.
Degli escrementi seccati addosso,
perché loro potessero riderne.
Ma loro volevano soldi.
E mia madre non poteva mandarne.
Così ho rigettato singhiozzi indietro,
lacrime all’inferno.
Illudendomi, forse,
che un giorno avrei solcato il mare.
Che avrei avuto un’altra possibilità.
Che sarei riuscito a salvare anche mia madre.
Sta entrando acqua nel gommone.
Tutti gridano.
Alcuni di noi si stanno buttando nell’acqua gelida.
Una mamma stringe un neonato in braccio.
É buio, ma riesco a vederlo bene.
Nessuna delle due ha la forza di piangere.
Il deserto mi separa dalla mia vita,
il mare anche.

Io il fascismo non lo rivoglio

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Io il fascismo non lo rivoglio.
Non voglio le discriminazioni.
I governi della caccia al diverso.
Io il fascismo non lo rivoglio.
I treni che partono verso posti migliori.
Corpi divenuti cenere.
Per difendere un popolo vergine,
ma sporco di sangue.
Io il fascismo non lo rivoglio,
con i roghi dei libri.
Delle idee.
Di chi vuole essere libero di pensare.
Io ho paura, lo ammetto.
Di chi si schiera a difesa della violenza.
Di chi minimizza.
Di chi sdrammatizza.
Io il fascismo non lo rivoglio.
L’ipocrisia di una marcia democratica su Roma.
L’annientamento di chi si oppone.
La distruzione della libertà.
Pezzo per pezzo, un po’ alla volta.
L’Italia è stata fascista.
Gli italiani lo sono stati.
Io sono italiano, il fascismo l’ho vissuto, però.
Attraverso le parole di chi lo ha vissuto.
Io sono italiano e continuerò a urlarlo.
Io il fascismo non lo rivoglio.

É soltanto un occhio nero

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È soltanto un occhio nero.
Non lo ha fatto apposta.
Sono caduta.
Lo ripeto a uno specchio che ride,
di me.
Di quella me che immaginava un mondo diverso.
È soltanto un livido.
Passerà presto.
Lui non voleva.
Quando cammino per le strade,
non riesco a non guardarmi nelle vetrine.
E a sentirmi troppo sola.
Non vali niente.
Non sei capace.
Sei troppo stupida.
Impara.
Voci incessanti che urlano.
Non riesco a farle smettere.
E ho ancora male alla testa.
L’aria fredda mi ricorda che tra poco sarà Natale.
E vorrei tornasse a esserlo anche dentro di me.

Il tempo di un sospiro

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Il tempo di un sospiro,
le persiane ancora chiuse.
Quel giorno pioveva a dirotto.
E ora tutto sembra fermo.
Impresso in un tempo sospeso.
Solo un attimo più tardi,
e ora non sarei qui.
Fermo a osservare
Quella che è stata la mia casa,
da sempre.
Solo un attimo più tardi,
e sarei stato prigioniero,
anch’io della polvere.
Il tempo di un sospiro,
e ora sarei la mia malinconia.
Quel brivido in bilico,
tra una domanda,
sospesa anche lei,
come quel mostro.
Dio, perché?
Perché proprio adesso.
Anche secondo te è colpa nostra?
É quasi pronto il pranzo,
in tenda si mangia presto.
Faccio finta di non sentirlo,
il freddo che arriva.
Così due mesi,
mi sembrano una vita fa.
Il tempo di un sospiro,
quello spiraglio tra l’essere e lo sparire.
Chiudo il giubbotto.
Ora sono qui,
non voglio perdere più alcun istante.

C’era una volta il partito del fascio

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C’era una volta il partito del fascio, prometteva benessere e sviluppo a tutto il popolo italiano e che sarebbe stato finalmente risolto il terribile problema degli stranieri che rubavano loro la ricchezza e la prosperità. Raccontavano di quello che sarebbe stato il cambiamento imminente di tutto quello che non funzionava e che finalmente gli italiani si sarebbero ribellati e liberati del giogo degli Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Narravano di un’alleanza con paesi amici che li avrebbero aiutato in questa avventura.
Un giorno il partito del fascio portò gli italiani in guerra, ma prima aveva distribuito loro la tessera del pane, provveduto a bruciare i loro stupidi libri e allontanato i vicini di casa stranieri. Gli italiani ripetevano gli slogan che venivano urlati da un balcone.
Poi iniziarono a cadere le bombe e gli italiani iniziarono a capire che la guerra stava volgendo al termine. E che a vincerla sarebbero stato proprio i nemici americani, francesi e inglesi e decisero di cambiare schieramento. Nel frattempo gli ex amici tedeschi avevano iniziato a stuprare donne e a mettere a ferro e fuoco i territori italiani. Alla fine di questa brutta storia gli italiani si ritrovarono indebitati con chi li aveva salvati da un nemico a cui loro stessi si erano affidati. Per anni e anni qualche italiano aveva raccontato di cose belle fatte dal partito del fascio: le bonifiche, le leggi per la previdenza sociale. Pian piano la ferocia venne dimenticata. Fino a quando, un bel giorno, il partito del fascio tornò, ma nessuno se accorse. Forse perché non aveva più gli stessi colori e si chiamava in un modo diverso. Qualcuno iniziò ad accorgersene perché prometteva benessere e sviluppo a tutto il popolo italiano e che sarebbe stato finalmente risolto il terribile problema degli stranieri che rubavano loro la ricchezza e la prosperità.

“Come si fa il latte della mamma?” di Amelia Tipaldi e Carlotta Passarini

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“Come si fa il latte della mamma” é un albo illustrato essenziale per le neo mamme, racconta quanto sia importante l’allattamento del proprio bambino e quanto possa aiutare nella crescita del neonato. L’autrice del testo è Amelia Tipaldi, ingegnere, mamma di tre bambini e consulente alla pari per l’allattamento, mentre le splendide illustrazioni sono opera della bravissima illustratrice a Carlotta Passarini. Edito da Il Leone Verde piccoli, questo libro è già un successo. Una storia nata sul blob “mamma, raccontami una storia” e che diventa un veicolo per sensibilizzare le mamme a riscoprire la tecnica naturale dell’allattamento, anche di fronte a un mercato che propone diverse soluzioni artificiali, ma che mai potranno avere lo stesso valore del latte materno. Per questo è importante scoprire “Come si fa il latte della mamma”.

L’era dei commenti

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Viviamo nell’era dei commenti. Tonnellate di pensieri non richiesti gettati con odio su tutte le piattaforme socia. Partiamo tutti dallo stesso presupposto: che a qualcuno interessino. Ma la verità è che il complesso sistema che noi chiamiamo rete fagocita anche le nostre identità, trasformandole in semplici target per promotori pubblicitari. Il meccanismo è semplice: individua le caratteristiche del potenziale acquirente e vendigli tutto quello che può servirgli. Anche qui si apre un mondo. Quello che ci serve è quello che ci viene proposto come necessità, anche quando non lo è affatto. Nascono così mode ad hoc, fenomeno da imitare, il sistema va ben oltre gli influencer. Loro non sono che pedine in un gioco troppo più grande di loro. Sembra il Grande Fratello, direte. Ma questo lo sapevamo già. E non ci preoccupa nemmeno poi molto di essere diventati solo dei clienti a cui vendere qualsiasi cosa, a patto che ci lascino la libertà di esprimere una “libera opinione”. Anche quando questa non ha alcun valore e nessuno sarà interessato ad ascoltarla. Così la conoscenza viene soppiantata da Google, i ricordi da troppe fotografie. E si finisce per perdere la cosa più importante: la nostra identità. Quella vera, non quella dei social.

L’attesa per un uomo che sta per diventare papà

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L’attesa per un uomo che sta per diventare papà è diversa da quella di una mamma. C’è una componente che è assimilabile allo smarrimento, alla paura di non riuscire a essere all’altezza di un compito così difficile. Forse alla consapevolezza di andare incontro a qualcosa che non si conoscerà mai davvero, se non nell’attimo stesso in cui quel miracolo avverrà. Quella domanda che si ignora sempre: ma sarò più fragile io che sono grande e grosso o tu, che sei così piccola e indifesa? La verità è che dovremo aiutarci a vicenda. Perché non è che abbia da darti molto di più di ciò che sono. Con tutti i miei difetti, i sogni infranti, le ferite, ma tu sei un sogno che diventa realtà, così l’attesa diventa fremente come per i bambini che a Natale aspettano il momento in cui potranno scartare il loro regalo. Perché la verità è che a un uomo che sta per diventare papà non sembra nemmeno ancora vero, anche quando ti sento muovere nella pancia della mamma. Anche quando lo smarrimento si dissolve, come la nebbia all’arrivo del sole più caldo, e riesco a immaginare un volto che non riesco più riconoscere: il mio.

Memoria collettiva

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La memoria collettiva ci fa diventare un mostro, oppure l’esatto contrario. In poche parole, anestetizza le nostre idee individuali. Per certi versi agisce da lenitivo per gli eventi negativi, se non quando amplifica gli effetti di quelli positivi. Noto sempre più spesso che i social possiedano una grande potenzialità, quella di creare una memoria collettiva. Questo accade grazie a una strumentale e continuata opera di dissuasione dalla realtà, per quanto la storia stessa sia un punto di vista. La ricostruzione sistematica degli eventi genera una storia alternativa, quindi, di fatto, un’altra realtà possibile. Il tema è sempre il solito, chi ha interesse, nel fare cosa. Proprio per questo dobbiamo sempre fare attenzione quando esprimiamo un parere o un pensiero, non perché non sia giusto farlo, ma perché potrebbe essere, inconsciamente, il frutto di una nuova memoria collettiva in fase di costruzione. Potremmo aver anestetizzato un altro pensiero nato liberamente. E che magari abbiamo taciuto. Non si tratta di difendere uno o un’altro punto di vista, ma la libertà, non solo di opinione. Perché se non ci riflettiamo adesso, domani potrebbe essere tardi. E potremmo essere noi stessi il mostro, anche quando penseremo di essere il suo contrario.