A volte

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A volte posso sembrare burbero, soprattutto quando di parlo di temi seri. Io credo che una partita duri sempre novanta minuti, anche quando si è svantaggio. Ma credo anche che la nostra sia una società spietata. Crudele. Che, come dice Liga, non permette di arrivare nemmeno al primo ritornello. Credo anche che si debba fare tutto il possibile per ottenere quello in cui si crede. Con tutto l’impegno possibile. E anche a costo di perderla, la partita. Con serietà, dedizione, sudore. Tanto sudore. Con queste cose tutto si può fare, o quanto meno ci si può provare. Posso sembrare burbero perché queste cose vanno dette così, come farebbe un allenatore con i suoi giocatori.

La camera oscura

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Ogni gesto, parola, sorriso è un linguaggio. Ma le ferite restano, anche di fronte a una frase scritta nel modo migliore. Restano tra le righe di una canzone, le pagine di un romanzo. Le scritte sui muri. La camera oscura, in cui sviluppare i ricordi. Un mondo, le sue sfumature. Ogni gesto, parola, silenzio, raccontano qualcosa. Ma dimenticare le proprie ferite sarebbe come perdersi. E cancellare la propria, di storia.

Oltre lo specchio 

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E tu, raccontamelo. Quando le labbra si mordono, a un passo da una stazione. Le luci, calano. E non hai voglia di mangiare. Quando tremano gli occhi. E senti i giorni correre. Veloci. Troppo, veloci. Tremano le pareti, il soffitto, un lampadario. Appesi alle speranze tradite dal tempo. E tu, scrivilo. Che la disillusione è una malattia. Che la cura, é guardare oltre lo specchio. Le vetrate, a celare un treno che parte. E le labbra, che si mordono.

Tratto da quello che la gente non vuole ascoltare.

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Cosa cerchi, in questa valle sperduta? I brandelli di sogni nascosti tra le foglie e le gocce di rugiada. Le notti stellate, che alle stelle hanno tolto la parola. Le disillusioni di chi corre, per non andare da nessuna parte. Le paure di chi scrive il proprio nome sulla porta del cesso di un Autogrill. Le note incantate di un pianista che torna a casa ripetendosi che domani andrà meglio. Lo sguardo di chi si è perso. Chiudo la finestra, sento freddo. Anche se fuori é l’inferno. Alzo il volume della musica, per non sentire quello che ho dentro.
Tratto da quello che la gente non vuole ascoltare.

Il barattolo di vernice

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Io, la mia immagine riflessa sul bordo del pianoforte. Tu, la luce che taglia l’aria della stanza.

La polvere, colta in fragrante.

C’è un nome scritto su un foglio, abbandonato sul tavolo. E un barattolo di vernice.

Le parole sussurrate, fino ai confini della stanza.

E una porta, a racchiudere un mondo.

C’è il tempo, scandito da un orologio invisibile.

Lo spazio, nella disordinata simmetria.

Io, che cerco di capire il senso di una parola.

Tu, che lo conosci. E puoi darle un nome.

Da un romanzo che non esiste

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Lei chiuse gli occhi. Lui, non aveva più paura. Le scritte sul muro raccontavano un’altra storia. Il cielo restava in silenzio. Le parole, sospese a un filo invisibile. Lei sfiorò la sua mano. La musica era troppo forte e non riusciva a sentirlo. E così, svanirono. Il filo si spezzò. E lei riaprí gli occhi. E lui non c’era più. Guardò il muro e di sfuggita riuscì a leggere quell’unica parola, scrostata dal tempo. Si alzò , incamminandosi verso il mare. Mentre iniziava a piovere. Una parola, una soltanto. Domani.
Da un romanzo che non esiste.

Estratto da L’Equazione

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La sala delle feste era immensa: lunga e stretta, con grandi vetrate coperte da tendaggi merlati. Il pavimento a scacchi bianchi e neri la rendeva ancora più maestosa alla vista. Il soffitto a botte, sostenuto da arcate bianche, era impreziosito da intarsi che rendevano il salone elegante e sontuoso. L’interno era illuminato soltanto dalla luce delle candele, alte circa un metro, sistemate sulla parete più estesa. Al centro della sala spiccava un tavolo di forma ovoidale, coperto fino al pavimento da un lenzuolo bianco e attorniato da dodici sedie di legno. Nel salone c’erano due porte, ognuna delle quali posta sul lato più corto. Uomini vestiti con una tonaca nera e con il viso coperto da maschere bianche entrarono dalla porta a sud, accomodandosi attorno al tavolo. La sedia che rimase vuota era di legno rifinito a mano, con i braccioli dorati e la spalliera in tessuto imbottito. 

Gli uomini con la tonaca iniziarono a intonare un canto:

«..Tempio dei giorni
or s’avvicina quel che nasce
desìo che t’inganna
or si compia quel destino,
che il sangue sia versato».

Quando la figura di un uomo si materializzò dalla porta nord del salone, tutti smisero di cantare, in attesa che l’uomo raggiungesse, con passo lento e regale, la sedia vuota. Occhi spiritati spiccavano dalle feritoie della sua maschera. Una volta seduto, il canto riprese.

«Or qui giace il destino
che sia la prima goccia di questa morte
che sgorghi la fine di questo inverno
or che tutto ha inizio,
giace lontano questa leggenda
ritorna
ritorna
ritorna
ritorna».

L’uomo entrato per ultimo nella sala fece un cenno con la mano e il silenzio calò di colpo. Al secondo cenno, un urlo disperato squarciò il silenzio e dalla porta nord entrarono due uomini con la tunica marrone che trascinavano per le braccia una ragazza completamente nuda, costringendola a sdraiarsi sul tavolo con le braccia e le gambe legate ai sostegni.
La ragazza si divincolava, procurandosi lesioni dove le corde stringevano le caviglie e le braccia. I suoi occhi erano dilatati dalla paura. Si voltava da una parte all’altra chiedendo aiuto agli uomini seduti intorno, ma loro la osservavano impassibili. Quando la giovane fu bloccata al tavolo, i due adepti con la tunica marrone distribuirono un calice di cristallo a ogni uomo seduto attorno al tavolo, mentre all’ultimo arrivato consegnarono un calice dorato e un pugnale.

Da #lequazione