Raccogliendo il silenzio 

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Quanti ricordi, appesi qua e là.
Quante cose che potevano diventare.
Istanti, cercati in ogni luogo.
Ma la vita è un treno in corsa.
E fuori, vedo scendere la neve.
Lei, che copre ogni cosa.
Raccogliendo il silenzio.
Ovattato.
Feroce.
E mentre mi sento scorrere,
la sento.
La neve, mi nasconde.
E quanti ricordi, dentro di me.
Quante cose, potevo diventare.
Ma la vita è un treno. E ha corso.
Lasciando alle spalle tutto.
Paesaggi.
Delusioni.
Stazioni così fredde, da gelare il cuore.
Smetterà di nevicare.
Torneranno il sole, la luna, così come i ricordi.
E so di avere tutto quello che ho sempre cercato.

Impercettibilmente 

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Credo alle poesie che non sono mai state critte. Dalle mani stanche di chi la notte non può pensare. E raccoglie vite per strada. Dalle parole stanche di chi non ha più la forza per farlo. Dalle gambe tese perché è più importante scappare. Perché non è vero che il colore non conta. Di chi guarda un foglio bianco, i cui occhi sono immersi in un nuovo livido. E ha paura. Perché non è vero che si può sempre dire tutto quello che pensi. Di chi dorme. Ed é già molto, quando fuori riecheggiano boati. Di chi si é perso. Di chi fissa un muro, stringendo tra le mani un foglio, che sembra una condanna. Credo alle poesie, che solo gli occhi possono raccontare. Quando si abbassano, impercettibilmente. 

Lo spettacolo è qui

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Lo spettacolo è qui. Nelle parole sussurrate. Nelle battaglie che combatti fino all’ultimo. E che ti fanno vivere, anche se non le hai davvero vinte. Nelle luci degli occhi accesi. Nel guardarsi attorno e capire che si é camminato tanto. E forse per questo, a volte, si è stanchi. Lo spettacolo è qui. Nei giorni che costruiscono una storia. Un mondo, di vetro. Perché devi sempre nascondere quello che hai dentro. Il sipario sono il veleno. I riflettori, la speranza. In quel buio, tra gli spalti, c’è la tua vita. Ferma per un attimo. L’attimo di silenzio che precede lo spettacolo è una vita intera. Un treno che corre veloce oltre la stazione. Lo spettacolo è qui. Nei miei occhi, nei tuoi.

Ero solo un bambino

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Ero solo bambino. Guardavo quei dipinti appesi al muro. Affascinato, come solo un bambino sa esserlo. In quegli anni iniziavo a capire che si può fare anche quello che ti dicono di non fare. A quei tempi, dipingere era considerata solo una perdita di tempo. E, forse, è ancora così. Il coraggio che aveva mia madre di sfidare quei preconcetti mi spinse a scrivere. Ma per molti anni quel coraggio, io, non l’ho avuto. Così, ho nascosto parole su parole. Nel frattempo la vita attorno a me cambiava. Io, cambiavo. Costruendo muri spogli e castelli armati nei quali accrescere il mio cinismo. Ora so che quelle parole sono ancora chiuse in quel cassetto. A volte credo di averle dimenticate. Ma non è così. Vorrei solo avere il coraggio di aprire quel cassetto, capire che non sono più quel bambino. E che a quei dipinti ora posso dare una voce.

L’uomo che si fa chiamare uomo

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L’uomo che si fa chiamare uomo.

Costruisce prigioni, senza sbarre.

Toglie la vita dagli occhi,

confinandoli nei lividi.

Coglie nel segno, sin sotto la pelle.

Perché la ferita è il gioco sottile.

L’uomo che si fa chiamare uomo.

È l’abile attore,  che sa fingersi vittima.

È il vile carnefice dalla lacrima facile.

La sinfonia venuta male.

La mano pesante, su una scusa leggera.

Ma tu non spegnerli i tuoi occhi.

L’uomo che si fa chiamare uomo

Dentro di loro leggerà di non esserlo.

Perché ho scelto di scrivere un romanzo come #LaMacchinadelSilenzio?

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Perché ho scelto di scrivere un romanzo come #LaMacchinadelSilenzio?
Volevo creare qualcosa che trasformasse scienza e storia in spettacolo. In un romanzo privo di tutte quelle chiacchiere, utili solo a riempire più pagine possibili. E siccome non credo che i libri siano quantificabili “un tanto al chilo”, ho deciso di usare il linguaggio che preferisco: secco. Diretto. Essenziale.

Io, vivevo di sogni

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Io, vivevo di sogni. Quando poco più e poco meno di adolescente costruivo dei mondi che assomigliavano alle mie idee. Ed erano tempi duri, quelli. Si veniva discriminati per poco: perché si era timidi, perché i propri genitori erano separati, perché preferivi la musica al calcio. Perché, perché, perché?. Una parola che racchiude tanti significati. Ed era la domanda che più spesso mi ponevo. Oggi tutto è più veloce, anche le parole. Che forse fanno più male. Proiettili impazziti che crivellano le anime di ragazzi che sembrano non avere più armi, persi nel display di un cellulare. A quei tempi l’unico modo per urlare, era scrivere. I primi temi facevano venire il classico groppo in gola, a me, per primo. Poi quell’onda d’urto arrivava agli altri. Ma il primo a farsi male ero sempre io. L’autore e carnefice. Ieri sera ho riprovato quella stessa sensazione quando mia moglie Anna ha letto al suo pubblico il mio racconto “La Bambola”. Mi è sembrato di ripercorrere il film all’indietro, come su una macchina del tempo. Di rivedere ogni sfumatura di una storia che mi ha portato fino a qui. Forse un giorno avrò il coraggio anche io di leggere quel racconto, per ora non ci riesco ancora. Così, oggi come allora, lascio che siano le parole a raccontare quella storia. In momenti come questo mi rendo conto di quanto la scrittura mi abbia aiutato. Di come la velocità delle parole sia diventata un limite, mentre dovrebbe, e potrebbe, essere un’arma per difendersi, per ritrovarsi. Vorrei poterlo raccontare ai ragazzi più giovani, quelli più fragili, che si sentono esclusi, discriminati, impauriti da un branco che vuole annientarli. Chissà che qualcuno di loro possa scoprire che quella rabbia, delusione, paura può diventare uno scudo, delle solide mura dentro quali costruire mondo che sono idee. E chissà che un giorno possano guardarsi anche loro allo specchio e dire: io, vivo di sogni. Ancora oggi.

Hashtag

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Quando vedo comparire su twitter l’hashtag di una città, torna a farsi sentire l’inquietudine. Quella strana consapevolezza che viviamo in un’epoca strana, che ti fa pensare: no, lì non ci vado “perché c’è il terrorismo”. Ma dentro di te sai che è ovunque. Spesso mi chiedono perché io abbia scritto storie in cui emerge la ferocia dell’essere umano e in particolar modo il suo lato oscuro. Perché quella parte dell’uomo esiste, semplicemente. Io credo che la realtà vada osservata bene, per provare a capirla. Io, che ho amato da sempre la storia, ho iniziato a farlo confrontando diversi periodi storici e cercando le similitudini, i luoghi di contatto, le motrici degli eventi e i punti scatenanti. Il disegno che c’è alla base. Ma la realtà a volte supera la fantasia o semplicemente la mette in scena, come uno spettacolo a teatro. Così quando vedo comparire il nome di una città tra gli hashtag, rispondo all’inquietudine nel modo che meglio conosco. Approfondendo. Provando a capire quello che sta succedendo. Senza necessariamente cedere al panico, ai giudizi facili, senza inneggiare a quella o a un’altra parte. Credo nella libertà. Perché altrove i libri vengono bruciati. E quello sí, mi fa paura.