Riprenditi i tuoi occhi

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Scopri il tuo viso,
non sarà il freddo a cambiarti.
Né questo vento,
che spazza via tutto.
Guardala in faccia,
questa voglia di urlare.
Di rialzarti da terra,
di riprenderti i tuoi occhi.
Nascosti dietro vetri oscuri.
Celati dentro i tuoi addii,
Persi nelle favole sporcate,
Vivi nei riflessi di una luna stanca,
in un mare che, in fondo,
non ti conoscerà mai.
Come hai imparato a fare,
di fronte a quello specchio,
che mostra il tuo viso.
E svela i tuoi occhi.

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Un po’ di me che si inganna

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Grandine,
ogni colpo, un po’ di me che si inganna.
Il tempo non curerà le ferite,
di un mondo che ride di sé.
Piove più forte,
senza bagnare alcuna lacrima.
Farà freddo dopo,
quando il vento non ti raggiungerà.
E sarà un mondo diverso,
ma riderá lo stesso.
Una freccia scoccata,
in direzione di un posto lontano.
Grandine,
ogni colpo fa più male.
E dove ripararsi,
nelle radure dell’anima.
Dove raggiungersi,
in quell’attimo sospeso.
Tra cui sei,
e chi vorresti essere.

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24, cosa penso della prima serie

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La prima serie tv #24 è datata 2001 e per tanti versi si vede molto quanto il mondo, almeno dal punto di vista tecnologico, sia cambiato. Il format attrae molto per la narrazione, ancora molto attuale. Ogni puntata racconta ciò che avviene in un’ora, l’intera serie si svolge pertanto in 24 ore. Il protagonista è Jack Bauer, interpretato da Kiefer Sutherland, che ho molto apprezzato in una serie tv molto più recente: Designated Survivor. La storia è molto intricata e a causa della struttura complessa si ritrova in diversi punti, inevitabilmente, a rallentare. Il punto di forza della narrazione presenta in questi ambiti qualche elemento di criticità. Bisogna anche considerare che dal 2001 a oggi anche la narrazione in serie come questa è molto cambiata, oggi verrebbe sicuramente raccontata in modo diverso, tuttavia la serie è gradevole e coinvolgente, nonostante le esagerazioni e le forzature necessarie per rendere più solida la struttura. Essendoci ben 9 serie, sono curioso di sapere come questi aspetti siano stati gestiti con lo sviluppo delle diverse tecnologie. Ma sono fiducioso.

Sangue e ossigeno

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L’inchiostro mi lacera,
brucia e la pelle ascolta.
Le luci della sera,
sotto i tacchi di chi si è perso.
L’alcool accarezza il mio stomaco,
so che domani farà male.
Ma stasera la musica è più forte.
Tremano le mani,
le immagini girano.
Ho perso il controllo,
ma vedo ogni sfumatura.
L’inchiostro mi serve,
come il sangue e ossigeno.

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Una felicità semplice, di Sara Rattaro

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Una felicità semplice è un romanzo che racconta una storia d’amore diversa, il cambiamento di una donna, che però non riesce a farlo mai davvero, perché quell’amore è ancora lì, accanto a lei, anche se, in realtà, non potrà più tornare. È la storia di un uomo che si innamora proprio di quella donna, di quella figura che sembra essersi persa dentro se stessa e in un amore dal quale non vuole liberarsi.
È la storia delle scelte, di quello che ci possono portare a diventare. O che ci possono far perdere per sempre. Una storia di rinascita, nonostante tutto. Una storia d’amore, perché l’amore è tante cose. Tutte quelle che ci rendono ciò che siamo.

Se così fosse

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Anche se così fosse,
che il tempo ci cambia.
Che la pioggia non basta,
a dimenticarci,
di ciò che siamo stati.
Che il tempo ci avrà insegnato,
che i piedi sono radici,
che si cibano di cose vere.
Acqua.
Terra.
Aria.
Io non ci crederei.
Ma la verità ti fotte.
È uno specchio e doppio fondo,
Un film in bianco e nero.
Una pellicola che brucia.
Anche se così fosse,
il tempo avrebbe fatto il tuo corso.
E resi il cinismo,
che ci ubriaca di colori distorti.

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Labirinto – Ep16

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio
Nelle puntate precedenti:
Labirinto – Ep14
Labirinto – EP15
  Ep16 Davide e Fabio restavano in silenzio, il primo intento a seguire la traiettoria più sicura, il secondo a lavorare sul sistema operativo del velivolo per disattivare ogni possibile traccia che potesse svelarne la posizione. Tutto era successo in pochi secondi. Fabio era riuscito a gettare in terra uno dei soldati. Davide era stato pronto nel disarmarlo e a utilizzare l’arma per costringere il pilota a scendere dall’elicottero. – Non riesco a prendere il pieno possesso del sistema – disse Fabio. Davide trasalì. Era la prima volta che lo sentiva parlare. Lo osservò per qualche istante. – Forse non dipendeva da quel segnale – continuò il ragazzo, senza riuscire a nascondere un sorriso. – Quindi mi stai dicendo che ci troveranno presto. – – Esatto, sto dicendo proprio questo. Ed è bello poterlo fare. – Questa volta fu Davide a sorridere. – Il sistema sembra blindato. Ma temo possano inserirsi da un momento all’altro e prendere il controllo. – – O forse stanno già cercando di abbatterci. – replicò Davide, forse più parlando a se stesso. – Dove stiamo andando? – chiese Fabio. Davide sapeva che esisteva un unico posto in cui avrebbe potuto tenersi lontano dall’occhio di quel sistema di controllo. Ed era proprio lì che si stava dirigendo. – Dove il logo occhi non può arrivare. – Centro di detenzione preventiva – Pensavo fossi morta – asserì Monica. Monica aveva seguito con la coda dell’occhio quella figura femminile che si avvicinava. – A quanto pare non è così. – rispose Simona. – Che peccato – replicò l’altra. – Dobbiamo collaborare se vogliamo uscire da qui – continuò Simona. – Forse non ti sei resa conto che il mondo che conoscevi non esiste più. Che non c’è modo di ripristinare quella realtà. E che moriremo qui. – concluse Monica. – Questo è da vedersi. – – Hai un piano? – – Tanto per cominciare movimentare un po’ l’ambiente. – – E pensi che un po’ di rumore possa spaventare una macchina? – – Questa macchina l’abbiamo creata noi. – – No, io non ho progettato questa bestia. – – Hai ragione. Non è alla bestia che voglio parlare, infatti. – Monica sollevò lo sguardo per incrociare quello di Simona. – Queste persone non sono più in grado reagire a nessuna provocazione. Sono spente. – – Probabilmente è così.- – E ci staranno ascoltando. – – È quello che spero. – disse Monica, avvicinando la bocca all’orecchio della sua interlocutrice. – Potremmo parlare al nulla. Quello a cui ti stai aggrappando potrebbe non esistere più, come tutto il resto. – In quel momento i soldati si stavano avvicinando verso di loro, facendosi largo tra i detenuti. – Abbiamo fame! – urlò Simona. Qualcuno si voltò verso di loro, ma senza alcuna convinzione. Nulla sembrava fermare la marcia dei soldati. – Dateci del cibo vero! – urlò ancora Simona. – Cibo, cibo! – iniziò a scandire Monica a voce sempre più alta. – Sì, cibo! – urlò un’altra donna alle loro spalle. In pochi secondi le grida avevano coinvolto la gran parte dei detenuti, molti dei quali iniziarono a spintonarsi e a rivolgere insulti verso i soldati, i quali facevano fatica a raggiungere l’origine di quella che era diventata in pochi secondi una rivolta. Gli stessi soldati sembravano impreparati che una cosa del genere potesse davvero accadere. Il rumore e il vociare divenne sempre più forte. Simona si abbassò sotto la mole delle persone che urlavano. – Esiste un vecchio cavo telefonico nel locale lavanderie, se riusciamo a trovare un dispositivo adatto potremmo provare a raggiungerlo. Solo tu puoi riuscirci. – Monica ricambiò il suo sguardo, senza troppa convinzione. – Dove possiamo trovare un dispositivo – replicò Monica. Simona e Monica si allontanarono dal cuore della sommossa. I soldati erano impegnati a sedare la sommossa. Ma sui loro display che mostravano gli ordini impartiti era comparsa la scritta: interrogare soggetti scatenanti della sommossa. Il messaggio mostrava le foto delle due detenute che avevano scatenato la protesta. Photo by Unsplash

Al posto nostro

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Avrebbe avuto il coraggio di guardarlo.
Dirgli che aveva ragione,
che era cambiata.
Ma con noi stessi non siamo mai davvero sinceri, cerchiamo di nascondere la verità,
tra le pagine di vecchi libri,
che invecchiano sugli scaffali,
come potessero farlo loro,
al posto nostro.

Labirinto – EP15

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Nelle puntate precedenti:
Labirinto – Ep14

Centro di detenzione preventiva

I detenuti erano costantemente sottoposti a un monitoraggio attento e scrupoloso, in cui migliaia di sensori scrutavano ogni loro singolo e impercettibile movimento. Ogni più piccolo dettaglio era utile per tarare il sistema e renderlo sempre più efficace, consentendogli l’azione anche alla parte di popolazione che sembrava non esserne condizionata. I progettisti un tempo erano esseri umani, ma il sistema era diventato sempre più efficiente, sino al punto di essere perfettamente in grado di correggere in perfetta autonomia ogni più piccola problematica. Il progetto si era sviluppato velocemente. E quella in corso era l’ultima fase, la taratura del meccanismo di riprogrammazione. Fase che decretava senza ombra di dubbio quali erano i soggetti immuni al trattamento e per i quali non poteva che esserci una sola soluzione: la soppressione. La fase di analisi in corso serviva a identificare le procedure più profonde di difesa e di necessità di sopravvivenza della mente umana, l’ultimo baluardo al controllo completo degli esseri umani. I detenuti che presentavano maggiori problematiche venivano privati del cibo, del sonno, dell’acqua. Molti di loro impazzivano, ma non prima di aver fornito una serie di informazioni fondamentali per tarare i limiti entro i quali lavorare per la conversione. Simona era seduta in mezzo a centinaia di uomini e donne vestite come lei con un’anonima tuta grigia. Guardava quelle persone che vagavano per l’immenso salone, spaesate, alla ricerca di un viso conosciuto, di un qualcosa che ricordasse loro chi erano. O chi erano stati. Ognuno di loro di sentiva vittima di un errore e della loro paura. Cercò di controllare meglio cosa la circondava. In ogni angolazione era stata posizionata una telecamera munita di sensori. Da quello che conosceva di sensoristica immaginava di trattasse di rilevatori di temperatura, microfoni e chissà cos’altro. Erano stati segregati in quel luogo come topi da laboratorio. Cercava di capire meglio chi fossero le altre persone attorno a lei, cosa la legava a loro, una correlazione, qualcosa che unisse i loro destini. Il suo sguardo venne attratto da chi, come lei, sedeva con le spalle al muro. La maggior parte di loro aveva ormai lo sguardo perso nel vuoto. Non cercava più nulla e nessuno. Lasciò che il suo sguardo scorresse su quei visi. A un certo punto lo sguardo si fermò. Aveva intercettato qualcosa che aveva rimesso in movimento qualcosa nella sua mente. Uno sguardo. Qualcuno che sembrava fissarla. Era una donna. Si rese conto di conoscerla. In quello sguardo c’era qualcosa che non riconosceva in lei. Qualcosa di profondamente oscuro che le fece venire un profondo brivido. Quello sguardo le ricordò suo padre. Il Maestro. In quello stesso istante un sensore aveva rilevato un’anomalia. Photo by Unsplash

Sei un fallito

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– Fallito – gli urlava il nuovo compagno di sua madre.
Valerio teneva testa a quell’uomo che puzzava di alcool.

– Non sei capace! Cosa ci vai a fare all’Università? Finirai comunque per andare a raccogliere cartoni. Tanto vale andarci subito e contribuire alle spese! – continuava lui.

Valerio tratteneva la rabbia, la tristezza e l’umiliazione. L’unica strada che aveva per costruirsi una vita era studiare. Ma farlo ogni giorni diventava sempre più difficile. Per frequentare l’Università servivano soldi e tempo. Ma stava per perdere anche l’unico dei punti di cui poteva disporre: la determinazione.
Valerio studiava di notte, mettendoci l’anima. Continuava a dare esami, senza tregua, perché sapeva che gli avrebbe concesso ancora un po’, vincendo una borsa di studio. Quello era l’unico modo per continuare ad alimentare quella che gli sembrava sempre più una stupida illusione.

– Non hai niente da dire? Pensi a quando potrai finalmente progettare cessi? – concluse, ridendo.
Sua madre avrebbe voluto difenderlo, ma non poteva farlo. Perché dipendeva dagli umori di quella bestia.
Valerio aveva sentito più volte nella sua vita cedere il terreno sotto i suoi piedi.

Si alzò e si soffermò a osservare l’immagine della copertina di un libro proiettata sul muro.
Quante volte nella sua vita aveva trovato difficile guardarsi anche solo guardarsi allo specchio senza sentire il peso delle sue sconfitte.

Poggiò una mano, come per sostenersi, sul tavolo che sarebbe servito da lì a breve per un’altra presentazione.

Valerio aveva iniziato a vomitare per sopportare quel senso di buio che sentiva salire ogni volta dall’esofago. Rimettere quel poco che riusciva a mangiare ed era ogni volta come una liberazione. Una forma arcaica di reazione, che però non faceva altro che mandarlo ancora di più al tappeto.

Il momento peggiore, però, era arrivato quando aveva sbagliato il primo esame. Un momento di buio totale che non gli aveva permesso di rispondere nel modo corretto, nonostante avesse studiato e fosse ben più che preparato. Il suo cervello lo aveva abbandonato nel momento in cui ne aveva più bisogno e in quel momento non aveva avuto nemmeno la forza di ammetterlo. Perché avrebbe avuto bisogno di mangiare, di riabilitarsi, di rialzarsi. Ma l’unica necessità che sentiva salire dal suo stomaco era solo una. Continuare a vomitare.

– Possiamo già iniziare a sedersi? – chiese una signora che era appena entrata nella sala.

Valerio la guardò, riprendendosi un attimo dai suoi pensieri.

– Sì, certo. – rispose, osservando altre persone che stavano entrando.

Si allontanò da quel gruppo di persone che man mano stava diventando sempre più numeroso.

– Buongiorno, sono Alessandra, la giornalista. Ci siamo sentiti telefonicamente, lei è Valerio, immagino –

Valerio gettò ancora uno sguardo allo schermo che proiettava un’immagine della copertina di un libro. Si chiamava “Fallito”.

– È pronto a raccontare a tutta questa gente la sua storia? ­–

In quel momento si rese conto che quella copertina rappresentava l’immagine nello specchio in cui finalmente riusciva a guardarsi. Rimandò indietro il magone e quella lacrima che avrebbe voluto uscire.

­ – Direi di sì. Ora sono pronto. –

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