E poi ho capito a cosa servono i Social

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Ho immaginato una stanza vuota con le pareti bianche, sulle quali attaccavo dei poster che in qualche modo mi rappresentassero. Poi mi affacciavo dall’unica finestra e osservavo. Dall’altra parte c’era una tizia che attaccava dei poster sulle pareti spoglie di una stanza vuota. Per poi capire che si trattava di un intero alveare colmo di stanze simili, ognuna vuota e con una finestra aperta su altre finestre su altre stanze. Ognuna con qualche poster sulle pareti e abitata da un individuo che voleva sentirsi diverso dagli altri.
Ho immaginato un mondo in cui nessuno poteva essere davvero se stesso, ma in cui tutti condividevano ciò che credevamo di essere. E poi ho capito a cosa servivano i social.

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Parlare di attentati non va più di moda

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Parlare di attentati non va di più di moda, ci si abitua a tutto in un mondo che vuole vestirsi da reality. Lo show deve far ridere, rilassare, al massimo far acquistare qualche prodotto. Ci guardiamo negli occhi, ma stiamo pensando ad altro, anche quando parliamo di cultura. Il nulla è punto nevralgico in mezzo a una valanga di informazioni. Eppure sono tutte lì, a ricordarci che non serve aver paura, quando inizi ad averne anche di te stesso. Parlare non va più di moda, tanto meno ascoltarsi.

Lo scrivevo tre anni, alla luce dei fatti odierni assume un significato ancora più oscuro.

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Un silenzio spettrale

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Un silenzio spettrale. È ciò che riesco a sentire. Non uscivo da un po’ di giorni e quello che percepisco é inquietudine. Gente che si guarda di traverso, quasi con sospetto. Ce l’avrai tu, o forse io? Probabilmente tu. La fila davanti al supermercato è lunga. Ho le mie cuffie e la mia musica, a cui seguono le parole. Ma scrivere in questi giorni è difficile. Mi manca l’aria ed è come se mi stessero rubando il tempo. Ci bombardano di immagini di bare e terapie intensive. Di numeri. Trasmettono paura. Ed è quello che sento intorno a me. Ma siamo esseri umani, é normale provarla. Penso a quanti da un momento all’altro in uno stato di guerra. A dover scappare con poche cose, a dover spiegare a tuo figlio perché l’uomo sia capace di fare le cose peggiori. Apro i social, si stanno insultando per un video che per alcuni é il vangelo e per altri un falso. C’è chi inneggia agli scienziati, chi li insulta. Chi grida al complotto, chi scrive frasi di speranza. La verità è che sono tutti impauriti, insicuri, come è normale che sia. Ma il silenzio spettrale deve essere abbattutto, così come la paura. Alzo il volume nelle cuffie. Questa é la mia risposta. Musica e parole. Ho sempre fatto così. Così non ho mai creduto per partito preso a niente. Mi sono costruito le mie idee. E ho lottato per difenderle. Per questo sento puzza di bruciato da lontano non appena qualcuno prova a giocare sporco. Questa situazione è irreale, ma allo stesso tempo vera e tangibile. Puoi quasi toccarla. E può contagiarti. È il virus del sospetto.

Ora non ci sei

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Eri alla finestra,
nessuno ti avrebbe creduta.
Nessuno lo avrebbe visto mai,
quell’occhio nero.
Siamo sempre troppo distanti,
oggi più che mai.
Impegnati a guardarci dentro.
No, nessuno lo avrebbe mai saluto,
del contagio.
Quante volte si muore lentamente,
senza numeri, né riflettori.
Ora non ci sei,
affacciata a quella finestra.
Chissà cosa ti è successo.
In questo silenzio,
anche le urla fanno meno rumore.

Il tempo del silenzio – #Ep2

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Pechino

Jie aprì il pacco con cura. Posizionó gli imballaggi nell’area adibita alla raccolta e soppesó il piccolo contenitore. Sospirò e rimase un attimo a riflettere. Sapeva che una volta aperto non sarebbe più potuto tornare indietro. Ogni cosa sarebbe stata diversa. E non solo per lui. Indossò i guanti protettivi e lo aprì.

Silicon Valley

Jonathan aveva chiuso la telefonata simulando disinteresse, ma era consapevole che si trattava di un danno enorme per la sua società.
Il telefono continuava a squillare senza sosta. Era Jennifer, la sua collega che aveva invitato a cena. Interruppe la chiamata e spense il telefono. Aveva bisogno di pensare alla prossima mossa. Nel suo mondo non era possibile perdere nemmeno un istante. A ogni bit corrispondevano miliardi di guadagno. O di perdita. E lui non poteva permetterselo.
Si chiese se cercare altri compratori potesse apparire una manovra rischiosa. Aprì una bottiglia di vino italiano, lo versò in un calice e ne sorseggió il contenuto, mentre osservava il profilo dell’oceano. Forse la compagnia di Jennifer gli avrebbe fatto bene, ma non aveva tempo. Era arrivato il tempo di agire. Lasciò il calice sul tavolo e si chiuse nel suo ufficio. Aprì il laptop.

A pochi chilometri di distanza.

Jennifer scagliò il cellulare contro il muro e si ruppe in mille pezzi. Aveva atteso quel momento per molte settimane. Si guardò di sfuggita allo specchio. Aveva indossato un tubino nero aderente che non nascondeva molto.

Wuhan

L’uomo aveva inviato un videomessaggio a un suo collega medico che esercitava la professione a Pechino. Gli aveva raccontato del caso del paziente morto per complicazioni respiratorie il giorno prima. Si sentiva rassicurato, il suo collega gli aveva detto di non preoccuparsi, che sicuramente si era trattato di un caso isolato. Ma non era per niente convinto. Si controllò la temperatura corporea. Tutto regolare. Aveva soltanto un po’ di tosse secca. Una patologia assolutamente normale nel periodo invernale.

Pechino

Jie posò il microprocessore sul piano di lavoro e puntò la luce per osservarlo meglio. Si sentiva soddisfatto. Quell’oggetto rappresentava il duro lavoro degli ultimi anni. Per completare quel momento mancava soltanto un passaggio. Inserire il processore nella scheda madre di supporto e collegarla a un computer molto potente. Ma per quel momento avrebbe dovuto attendere. Un messaggio del suo capo era appena comparso sul display del cellulare. Era prevista una riunione imprevista e importante. La convocazione era imminente.

Il tempo del silenzio
#Ep2

La puntata precedente
#Ep1

Il tempo del silenzio – Ep1

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Il tempo del silenzio – Ep1

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Wuhan

L’uomo aveva appena agganciato il camice al porta abiti. Era stanco e provato dal lavoro della giornata. Lavorava in pronto soccorso da circa cinque anni e ogni volta gli sembrava sempre più difficile sopportare il dolore e la sofferenza, soprattutto nei casi in cui non poteva fare niente per alleviarla. Non aveva molto tempo per riflettere, i turni erano sempre molto fitti e aveva soltanto poche ore per dormire. Il mattino sarebbe dovuto tornare in ospedale.

Mangiò qualcosa velocemente e si coricò.

In quel momento gli tornò in mente il paziente che aveva atteso il suo turno tutto il pomeriggio in sala d’aspetto. Sembrava non avesse motivi seri per essere lì. Eppure a un tratto aveva iniziato a tossire, una tosse secca, un infermiere aveva cercato di aiutarlo, ma in pochi minuti il suo quadro clinico si era aggravato e aveva iniziato ad avere problemi respiratori.

Era morto poche ore più tardi.

Pechino

Il pacco era appena arrivato dal laboratorio. Il corriere era stato veloce. Il tempo era determinante per il progetto a cui stavano lavorando da anni. Jie era un ingegnere di successo, proveniva da una famiglia povera di Pechino, ma grazie alle borsa di studio del governo era riuscito a conquistarsi un ruolo importante in una azienda informatica. Lo sviluppo della tecnologia in Cina era uno dei settori più importanti e le aziende avevano negli ultimi anni mutato la propria identità, da ditte assemblatrici si erano trasformate in aziende in grado di progettare, costruire e produrre oggetti tecnologici sempre più performanti, che rispetto ai competitor potevano contare su una caratteristica in più. Il prezzo. Gli operai non mancavano e il loro attaccamento alle aziende permettevano di investire su di loro, specializzandoli. Gli orari di lavoro a cui erano sottoposti erano devastanti, ma loro erano sempre presenti ed efficienti. Ed erano pagati poco. Pochissimo, in confronto agli stipendi che percepivano operai di quel livello nel mondo occidentale.

Posò il pacco sulla scrivania del suo ufficio e si soffermò a osservare il paesaggio che la vetrata dell’ultimo piano del grattacielo gli offriva. Sempre lo stesso, un grigiore tenue, che soffocava ogni colore. Per un attimo immaginò di vivere in quei luoghi di cui gli avevano raccontato, in Italia, per esempio.

In quello stesso istante il cellulare suonò.

Il cliente era pronto per procedere con l’acquisto del nuovo prodotto ideato e costruito dalla sua azienda. Un cellulare di ultimissima generazione.

Silicon Valley

Jonathan Valasco aveva depositato il brevetto soltanto pochi giorni prima, quella sera aveva in programma di uscire a cena con la giovane collega che era arrivata in azienda da pochi mesi. Aveva appena il tempo di passare da casa per cambiarsi, indossare qualcosa di elegante, ma senza esagerare. Aveva prenotato un tavolo in un prestigioso ristorante già in mattinata.

Quella videochiamata non era prevista. Si trattava del supervisor dell’azienda madre, la ditta che in genere acquistava i brevetti e che aveva permesso alla sua start up di diventare leader nel settore delle comunicazioni.

“Buonasera John, ti disturbo?”

“Assolutamente no.”

“Bravo, ho sempre ammirato chi si dedica con così tanta passione al suo lavoro.”

“Come mai questa chiamata, avevamo una call prevista per il giorno della consegna.”

“È proprio di questo che volevo parlarti. Abbiamo deciso di non acquistare il vostro prodotto.”

Il tempo del silenzio – #Ep1

Chi muore a causa del virus, muore da solo.

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Ragazzi, il problema non è il singolo che va a farsi una corsetta da solo, o che porta il cane da solo, che passeggia da solo, che va al supermercato venticinque volte da solo. È che tutta questa “solitudine” riempie le strade manco fosse Woodstock. Quindi ci si incrocia, ci si parla, ci si saluta. Esattamente come fosse un giorno normale in cui, tra l’altro, la maggior parte delle persone sono a casa da lavoro. Per contrastare un virus non funziona. È come invitarlo a nozze. Lo so. Molti si sentono immuni. E magari lo saranno pure, ma i soggetti vulnerabili sono i loro conoscenti, familiari, amici. Questo menefreghismo ci porta a dover vedere l’esercito pattugliare le strade. Ci sono poche regole, costruite, tra l’altro, per tutelarci tutti. E cazzo, rispettatele. Inutile che cantiate a squarcia gola l’inno italiano. Per una volta provate a non fare “i soliti italiani”. Questo non è un gioco. E non dimentichiamo che in questo momento chi muore a causa del virus, muore da solo.

La mia seconda festa papà

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Oggi è la festa del papà.
E per me è la seconda volta.
Oggi ci sei tu.
E stringerti è ancora un’emozione che non so definire.
Un giorno saprai che le parole non mi sono mai mancate,
ma che nei momenti più importanti,
inspiegabilmente,
non riesco trovare quelle giuste.
La verità è che con te è festa tutti giorni.
Che io e la mamma non potremmo più fare a meno di te.
Che crescerti è qualcosa che ci riempie di orgoglio e felicità.
Ho perso la metrica,
ma non importa.
Le parole han bisogno dei loro spazi.
Dei loro luoghi.
E, soprattutto, dei loro tempi.
Oggi è la festa del papà.
E ho atteso per una vita intera di esserlo.
Di rendere felice te e la mamma.
Sicuramente non ci riuscirò sempre,
ma ci proverò.
Forse imparerò a trovare le parole giuste,
ma puoi star certa che resterò in silenzio
quando, per la prima volta,
mi chiamerai papà.
Forse tratteró una lacrima.
Avrò gli occhi lucidi.
E fingeró un colpo di tosse per non mostrare il nodo in gola.
Ma so che lo capirai lo stesso.
Che ti voglio bene.

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Text by Daniele Mosca