Oggi come oggi è difficile trovare giovani autori di thriller con una marcia in più. Ilaria Tuti, quella marcia in più, ce l’ha. “Fiori sopra l’inferno è un romanzo” che tiene alta la suspence, pur entrando nella mente dei protagonisti con delicatezza. La narrazione è elegante e apparentemente “tranquilla”, ma è un inganno. La trama ha un’architettura ben studiata e si sviluppa con una maestria. Inevitabile non parlare della protagonista Teresa Battaglia e del suo collaboratore Massimo Marini. Lei è scorbutica, con un grande talento investigativo. Lui è alle prime armi, ma dimostra sin da subito di avere le carte in regola per supportare la protagonista, anche nella sua goffagine, riesce a essere decisivo. Ma quello che determina un’ombra che lentamente sulla vita dei protagonista è il male che ha colpito Teresa e che degenera giorno dopo giorno. É l’Alzheimer. Questo problema costringe la protagonista a scrivere gli appunti su dei fogli per non perdere di vista le informazioni trovate durante le indagini. Le ambienta riguardano scenari di montagna, in cui i personaggi sono molto chiusi e che sembrano tutti difendere il potenziale killer, tra stranezze e storie antiche, la storia svela il vero volto del paese e dei suoi abitanti. La montagna nasconde un segreto. Ed é inquietante. Lo si capisce sin dalla prima scena. Tra le montagne c’è un ospedale, nel quale c’è una stanza a cui solo poche persone posso accedere. E devono essere incappucciate. Inutile aggiungere ulteriori dettagli. Leggetelo.
Il nuovo disco di Andrea Lelli si chiama “Il tempo qui ed ora”, che è anche il nome del primo brano, una ballata decisamente attuale, musicalmente ben suonata e con una melodia accattivante. “Angelo mio” è una canzone leggera, in cui melodia ed elettronica si fondono, mantenendo un equilibrio che convince sin dal primo ascolto, caratterizzata da un’elevata qualità del testo, profondo ed equilibrato al taglio pop del brano. “La vita sai com’è” si contraddistingue per una miscela affascinante tra elettronica e un testo importante. Brano stilisticamente moderno, che allo tempo affonda le radici nella bellezza della musicalità italiana. “Il pittore” racconta la vita. E lo fa usando con maestria le metafore e appoggiandosi a una musicalità avvolgente e orecchiabile. “Fiori rotti” è una ballata dal sapore classico, ma dal suono radiofonico decisamente attuale, potrei sembrare ripetitivo, ma credo sia un concetto importante per quanto riguarda questo album. Ottimo suono. Elettronica. Testi importanti. Modernità, ma senza stravolgere la struttura classica. Il tutto miscelato con le giuste proporzioni. Per chi ama la musica italiana di qualità è un risultato da applausi. “Codice bianco” è un brano che riecheggia nel rock, affronta i momenti importanti della vita, delle attese, delle cose che, semplicemente, accadono. Un fermo immagine di noi, nelle sue sfumature, di come protendersi nei confronti degli eventi piú o meno importanti della vita. L’importanza di vivere il momento. “La tua strada” racchiude le parole sofferte consegnate a un figlio, tra quello che sei stato, che sei e che potresti essere. Perché lasciar andar un figlio sarà difficile, ma sarà la sua vita. E un genitore deve imparare sin da subito che non sarà mai pronto a quel momento. Gli errori, la fiducia, le scelte. Tutto è nascosto lungo quella strada da percorrere insieme. “Scale di grigi” è un brano particolare e raffinato, come camminare in bilico tra presente e passato, tra errore e fuga, tra lo restare insieme e non volerlo più fare. Quegli attimi che cambiano tutto, perché la vita è fatta di sfumature, tra il bene e il male. Tra l’io. E il noi. “Libero e senza filo” è una canzone che inneggia alla semplicità, alla purezza di un gesto di un bambino, un pensiero che può e vuole cambiare il mondo, liberarlo dal suo veleno. Librarsi in volo per poter guardare le cose da una prospettiva diversa. Più completa. E più libera, dove i fili muovono solo aquiloni. “Il nascondino delle parole” racconta i mondi in cui le parole si nascono, perché è sempre difficile dirle, perché le parole sanno fare male. Ma anche le parole non dette, i silenzi, possono ugualmente farne. Quelle parole urlate, senza pensare. Parole non calibrate, pericolose come proiettili vaganti. Quanto sono importanti le parole? Molto, a dimostrarlo sono proprio quelle usate nelle canzono di questo album. Storie che si rincorrono, un filo conduttore che lega frasi e parole. Il disco si conclude con una bonus track “Sotto e sopra il ponte”, un racconto di un passato che rimane impresso sulla pelle, l’anima. Il cuore. È un racconto che accompagna verso un presente che “quel ponte” lo ha visto crollare. E distruggere la vita di tante persone. È, però, anche il racconto di come una canzone che, la vita, può anche salvarla. “Il tempo qui ed ora” è un album completo. Elettronica, usata con intelligenza ed equilibrio. Suoni ricercati, affascinanti e stilisticamente raffinati Un grande lavoro che si cela dietro questi brani. Una ricerca interiore, ma che svela una grande professionalità e attenzione sia verso la musica, nella sua concezione più intensa, ma anche verso la sua evoluzione nel panorama musicale contemporaneo. Perché scrivere una bella canzone non è facile, lo è ancora meno farlo mantenendo il target musicale di oggi. Andrea Lelli lo ha fatto con maestria. Talento, professionalità, non mancano. E si sente. Disco consigliatissimo.
Un po’ ci piace farci male, altrimenti non saremmo umani. Nelle sfumature meno in luce, alle notti passate in bianco. Nelle note discordanti, ma che rendono il suono brillante. Nei sogni che facciamo. E in quelli che non abbiamo il coraggio di fare. Nei giorni in cui tutto sembra lontano. Un po’ ci piace farci male, scriviamo per questo. Per dipingere luoghi sconosciuti. Per darci una voce. In un mondo in cui tutti urlano favole.
Siamo persone fragili. Questa è la verità. Il caos del virus ha fatto emergere il peggio di noi. Quel bisogno ancestrale di timore e diffidenza. Ma siamo anche torrenti che cercando sempre la loro strada, anche quando provano a farli sparire. Quindi, passerà. A volte mi guardo allo specchio. Eh, sì. Mi sento invecchiato. A volte mi manca la forza e la determinazione per rivendicare quello in cui credo. Mi viene voglia di dire “ma chi se ne frega”. Avete ragione voi. Poi c’è una parte di me che non vuole farlo. Che ancora si incazza. E quando risento emergere quella parte quasi mi commuovo, perché quella parte di me é una grande testa di cazzo, ma ha una passione che non si ferma davanti a niente. E so perfettamente che devo quasi tutto a quella parte di me. Così ritorno a guardarmi allo specchio, con più capelli bianchi e qualche ruga in più. Più stanco, forse. Con negli occhi, però, ancora quel fuoco. Perché siamo così, fragili. Siamo torrenti, fiumi che, quando sono in piena, ritrovano la loro strada. Nonostante tutto.
È come un filo, una musica leggera, che unisce ogni cosa. Il tuo coraggio, la delusione, l’amarezza. Quel senso di sconfitta. Tutto si muove, silenzioso. Tra le stanze silenziose. E le nubi basse, appese a un cielo stanco. La verità è un quadro, i colori, cangianti. Da qui sembra tutto lontano. Anche i miei occhi, riflessi in un mare che non ricordo. Nell’altra stanza, il pianoforte. Avrei voglia di suonare. O forse no, preferisco restare qui. Ad accarezzare un filo.
Pochi minuti per scrivere, perché tutto corre veloce. Ma il tempo è relativo, l’estate è tornata qui. E ci coglie impreparati. Con i sorrisi nascosti. Spersi tra le stesse strade, ma che non riconosciamo. Con la paura leggera, di sentirci cambiati. Negli occhi, la voglia di ritrovarsi. Oltre uno specchio, che non sa mentire. Pochi minuti per scrivere, ma le parole restano sospese. A quei silenzi, a cui cercano di abituarci.
Gli anni, gli errori, le parole, sprecate di fronte a una luna distratta, mi hanno reso più paziente. Distante, a volte. Come in un gioco di prospettiva. Di specchi, forse. Quando mi vedo deformato, provo a ricordarmi di me. Di come ero. Lo faccio perché i Luna Park non mi hanno mai divertito. Le luci finte, La felicità a gettoni. Resto in silenzio. L’ironia viaggia solo con l’intelligenza. Altrimenti, è solo volgarità. Cosí gli anni, gli errori, le parole, sprecate di fronte a una luna feroce, mi hanno reso più paziente. Di me, ho imparato qualcosa. Che il silenzio è, per sua natura, un discorso.
Lo capirai, che diventare grandi è difficile. Imparerai che ti giudicheranno per ciò che sei. Ma soprattutto per ciò che non sei. Che tradire un sogno fa male. Anche quando sai che é necessario. E che forse non sarai capace di perdonarti. Imparerai che, però, i tuoi sogni saranno più forti, che si trasformeranno con te. Lo sentirai quando la pioggia ti aiuterà a pensare. Oppure quando dovrai averne paura. La pioggia è leale, come le lacrime. Le foglie che cadono, il sole che spunta all’improvviso. Lo capirai, che diventare grandi è difficile, ma che varrà sempre la pena farlo. Uno dei motivi è proprio lì, sono i tuoi occhi.
Continuo a pensare che i social rappresentino un canale in grado di raggiungere moltissime fasce di popolazione, per certi versi in modo più profondo della televisione. Inevitabile che si cerchi il modo di influenzare e rendere i messaggi sempre più targhettizzati. Siamo chiari, il tanto temuto “tracciamento” parte dal reciproco controllo tra utenti, dall’analisi delle cose che piacciono o che non piacciono, dalle reazioni, gusti, luoghi frequentati. Uno studio così fedele e anche a noi serve, ma che ci pone in una condizione di essere nudi di fronte a questa nuova tecnologia. I protocolli di tracciamento, il misterioso e fantomatico 5G, viaggiano in quest’ottica di inevitabile assueffazione alla tecnologia. Io non potrei farne a meno, lo sapete. Ma sono solito ripetere che io sono nato nell’epoca del vinile, pertanto ho la fortuna di aver visto la mutazione della tecnologia analogica in quella digitale e averne apprezzato pregi e difetti di entrambe. Lo “spionaggio” è sempre esistito, seguiva solo regole diverse, ma oggi siamo noi a desiderare di essere spiati, a voler far sapere agli altri chi siamo e cosa facciamo, convinti che sia un modo efficace per farci conoscere e facendo finta di non sapere che ci stiamo esponendo solo a essere giudicati. In fondo si tratta di una forma di dipendenza, quella che ci lega a questo mondo virtuale, quella che ci impedisce di scomparire e vivere la vita serenamente e senza ossessionarci nel cercare pareri altrui o scriverne di nostri. Io me lo chiedo spesso perché continuo a comunicare, a chi sto parlando, se chi penso mi stia ascoltando lo faccia poi veramente. E la gran parte delle volte non trovo delle valide risposte, nel tempo il pubblico dei social è cambiato, si sposta da una piattaforma all’altra, sparisce perché si è annoiata. Perché mi pongo queste domande? Perché scrivo da sempre i miei pensieri, semplicemente perché mi piace farlo, ma chi scrive deve avere un motivo, dice Liga, ma anche un lettore. A volte, però, mi sembra di essere solo giudicato, più che letto. E so che questo è parte del gioco, ma riesco a sopportarlo sempre meno, questo perché non ci sono dialoghi da fare, si tratta solo di una condizione da subire. Questo non può essere un modo per comunicare in maniera trasparente. Non può che portarci a mettere in scena un programma che rappresenta ciò che gli utenti dei social vogliono sentire. Non ciò che si pensa. Ed è qui che nasce la targhettizzazione, l’influenza, in qualche modo il controllo. Dalla sete di giudicare.
Non credo alla tesi complottistica legata al Covid-19. Ovviamente parlo da “scrittore” di trame che più volte hanno toccato tesi geopolitiche. Sia ben inteso, penso che qualche mistero sullo sviluppo del virus ci sia. Ma quando leggo post strampalati che parlano di virus costruiti per arrivare a un controllo globale della popolazione attraverso le aziende farmaceutiche, mi viene spontaneo analizzarne una possibile trama. Eh, no. Non funziona. Non può funzionare perché il terreno non è adatto, lo sviluppo del virus passa attraverso apparati politici dei paesi che sono troppo diversi per poter essere utilizzati come piattaforma di controllo. I meccanismi sanitari esistenti sono troppo diversi tra i vari paesi da rendere praticamente impossibile costruire un sistema di controllo attraverso una piattaforma unica vaccinale. Inoltre è evidente che per obbligare tutta la popolazione, o gran parte di essa, basterebbe far leva su un aggiornamento di quelle già esistenti, magari obbligando a dei richiami dei vaccini già somministrati. Credo ancora meno alla tesi del 5-G, ma dal punto di vista geopolitico è sicuramente più spendibile per una trama. Partiamo dai protocolli di intesa tra gli sviluppatori della tecnologia e i vari paesi. Uno di questi riguarda proprio l’Italia. Per inserirsi in un mercato difficile come quello europeo e americano sarebbe stato certamente utile indebolirlo, situazione che il Covid-19 sicuramente ha fatto. Ma credo che la tecnologia del 5-G sarebbe comunque arrivata, posso quindi solo valutare un’accellerazione da parte di uno dei competitor. Eh, no, nemmeno questa tesi è convincente. Purtroppo resta la tesi più semplice, ovvero che questo virus si sia sviluppato per una mancanza di strategia difensiva dei vari paesi a questo tipo di criticità, questo senza nemmeno entrare nell’ottica della genesi del virus stesso, ipotizzando anche che sia completamente naturale, così come le ricerche dimostrano. E facendo finta, per un attimo, che le ricerche non possano essere strumentalizzate. Insomma, facciamo attenzione a quello che leggiamo, fantastichiamo pure, ma arrivare a dubitare dell’esistenza stessa del virus è irrispettoso nei riguardi di chi ha visto morire i pazienti, parenti. Non é stato un gioco, così come non lo è cercare di mitigare possibili picchi con i mezzi che abbiamo a disposizione. Parliamo, appunto, di mitigazione del rischio, per sua natura non potrà essere mai zero, quindi con buona certezza ci saranno altri casi. Quando finirà? Gli esperti dicono “quando ci sará un vaccino”. La corsa alla creazione e produzione é già iniziata. Molti paesi stanno già prenotando le dosi. Ecco, qui la geopolitica c’è. La mia trama inizierebbe proprio da qui.