Le onde sono più alte di questo vecchio peschereccio. Sembrano accanirsi sul legno umido e fragile. Gli scricchiolii sono più forti, anche del cuore che batte. Perché ha paura. Io raccolgo qualche immagine, pensando che questa possa essere l’ultima onda. Quella che porta via anche questo pensiero. Poi mi accorgo che arriva un’altra onda e un’altra ancora. E mi viene da pensare che il legno di questa barca abbia ancora molto da raccontare. Il motore ruggisce. Un po’ di luce all’orizzonte. Eppure, senza queste onde, senza questo sale nelle vene, gli scricchiolii del legno logoro, il filo di luce che improvvisamente comprare nell’oscurità, forse, il cuore non riuscirei a sentirlo battere. Senza il freddo di queste tempeste, non saprei cercare nei tuoi occhi il sapore dell’alba. Perdermi nelle sfumature di questo mare. Le onde sono svanite. Tutto sembra calmo, adesso. Il cuore batte, ancora. Forse mi stai aspettando, probabilmente no. E che importa, stanotte farà freddo. Ci sarà vento. Questo vecchio peschereccio ha bisogno del mare, come ne ho bisogno io.
Scrivevo per difendermi. Come una spada, da difendere dalla ruggine. Il tempo scandiva le sue frecce. E sentivo il freddo aprirsi un varco, tra la nebbia leggera di una stazione deserta. E tra le locandine sbiadite sui muri, cercavo il tuo nome. Quante volte ho scelto di smettere di difendermi, ma le parole non volevano. E lo facevano al mio posto. Quante volte ho sognato un mondo migliore, mentre mi sporcava. Lacerava i pensieri. Mi diceva che tutti prima o poi si arrendono. Ho scritto sui muri, pagine sporche d’olio, il mondo che desideravo. E forse una piccola parte di me è rimasta. Nascosta proprio nei mondi che raccontavo. Perché parlando del buio, si racconta quello che non riesci a vedere. E spesso sono proprio i sogni che difendiamo. Quante volte sono rimasto in silenzio, con la paura che sarei riuscito più a costruire parole. Che mi fossi arreso. Ed era in quel momento che sentivo dissolversi la ruggine.
Ci sono cose che abbiamo pensato essere importanti, ma che, all’ordine dei fatti, non sembrano tali. E ti ritrovi in un luogo, in un tempo, che ti getta in faccia un deserto che non avevi riconosciuto. Così devi ricominciare tutto da capo. Con te stesso, con quello in cui credevi e che ora appare sbiadito e lontano. No, non è che io sia cambiato. Sono solo stanco di accettare che vengano gettate addosso delle maschere. Perché per alcuni è più comodo credere che siano volti veri. Così è di nuovo il momento di scrivere nuovi progetti, di fare scelte che consentano di ricucire i vuoi lasciati dai rimpianti, dalle strade della vita che tante volte ti postano in radure lontane, in cui non trovi più niente che senti appartenere. Questa sensazione l’avete provata tutti, ne sono certo. Forse con amici, sul lavoro, nei sentimenti, semplicemente mentre davanti allo specchio cercavate di nascondere i segni del tempo. E forse con quelli fuori qualcosa si può fare. Ma dentro no. E sappiamo bene che non ci si può fermare. Che bisogna continuare. Anche quando nessuno ci crede, quando ti dicono che è troppo tardi. Che ti farai ancora male. Eppure sullo specchio, l’ho notata. Era una goccia che scivolava giù. Mi è sembrata una lacrima. La verità è che non siamo sempre quello che diciamo di essere, o quello che vorremmo essere. Se la natura ti ha dato le unghie, graffierai. Se ti ha dato i denti, morderai. Se ti ha dato un cervello, penserai. E se ti ha dato un cuore, amerai, nonostante tutto. Se ci sono cose che abbiamo pensato fossero importanti, probabilmente lo erano. Tocca a noi rialzarci, rimetterci in gioco. E tornare a scrivere sui muri i nostri progetti. E chissà, forse qualcuno li leggerà. Forse un giorno qualcuno si accorgerà di noi. Male che vada, ci ritroveremo a sorridere a quella lacrima che scivola via, perché, semplicemente, ci appartiene.
Guardati. Il vento muove i capelli, mentre il sole, annega. Non saranno i colori, a salvare quella lacrima, silenziosa e inaspettata. Che brucia sulla pelle. Che segna e fa rumore. Che insegna e dimentica. No, non sei più la stessa. Ogni tua immagine è svanita, ogni istante, scivolato via. Scandito da un tempo feroce. Guardati, Il suono del vento, rompe il silenzio. Ma alcune parole, restano lì. Appese a quel cielo, distratto, indifferente. Che riflettono uno sguardo, di un tempo, che nessuna musica racconta più. Lacrima, guardati. Se anche ti perdessi in quel mare, un giorno ti ritroveresti. Ora, vai. E abbi cura di te.
Fuori piove e sembra già inverno. Non posso dire che faccia freddo, ma l’estate sembra ormai già lontana. All’orizzonte ci sono tante novità e tante cose da fare. A volte sembra che settembre sia il luogo dei bilanci molto più che Capodanno. Sarà perché lo si associa sempre al ritorno a scuola dopo le vacanze. Quel momento in bilico tra passato e presente. Un limbo di sensazioni che non riescono ancora a esprimersi, ma che lo faranno presto. Nel frattempo inizio a leggere un nuovo libro. E poi, vedremo.
Fabio sentiva la mancanza dell’aria. Ma non era l’unica cosa che riusciva a percepire. Sentiva l’avvicinarsi della paura, il fattore scatenante di un’altra crisi. Ogni passo lo immergeva sempre di più nel buio. Il tunnel sembrava non finire mai. All’inizio Fabio aveva creduto fosse la soluzione migliore e probabilmente era così, perché in quel momento sicuramente il bosco in cui si era nascosto era stato dato alle fiamme e quel tunnel rappresentava la sua unica salvezza. Cercava di non voltarsi, di mantenere uno stato di calma, anche se sentiva un rumore sordo provenire dal luogo da cui era scappato. Sembrava il suono di un fiume in piena. Che si avvicinava velocemente. Ma non aveva tempo per riflettere, la sindrome dello spettro autistico di cui soffriva era come una bomba a orologeria per lui in quella situazione di stress. Il rumore sordo aumentava istante dopo istante, fino ad assomigliare sempre di un più a un rombo assordante. Iniziò a correre, ma sapeva di essere troppo lento, perché doveva orientarsi nel buio a tentoni. Il rombo era fortissimo, di qualsiasi cosa si trattasse lo stava per raggiungere. All’improvviso colpì qualcosa che non gli permise di proseguire la corsa. Il tunnel terminava con un muro. Dall’alto vide il riflesso di una luce, che illuminò una scaletta arrugginita. La vide un attimo prima che un fiume in piena raggiungesse il punto in cui si trovava. Dall’altra parte del tunnel i suoi inseguitori aveva deviato corso d’acqua che attraversava il bosco.
Davide stava per svegliarsi. Il primario aveva dato istruzione sul blocco dei macchinari che lo tenevano in vita.
L’impero aveva completato l’operazione di ricondizionamento degli equilibri politici dei principali stati con elezioni pilotate e aveva dato mandato di arrestare tutti i soggetti che risultavano immuni all’influenza della Macchina del Silenzio.
Simona era stata arrestata e con lei gli scagnozzi che l’avevano rapita.
Anche Monica era stata arrestata mentre stava cercando di scappare all’estero.
Il mandato di arresto venne diramato anche anche per Davide, ma era stato sospeso poiché la sua condanna era già stata emessa. Sarebbe morto a breve.
Fabio riapri gli occhi lentamente, cercò di muovere le articolazioni, che continuavano a fargli male. Si guardò intorno, era solo. Si ricordò in quell’istante di essere riuscito ad allontanarsi dal tunnel pochi istanti prima che l’ondata di piena lo strascinasse via.
Cercò nella sua memoria quale fosse il passo successivo da fare. La sua memoria era fenomenale come magazzino di informazioni, da qualche parte era sicuro di poter ritrovare l’immagine la mappa della città. Si ricordò perfettamente la strada per raggiungere l’ospedale in cui si trovava Davide. Era lo stesso che aveva visto nel gioco Second Life.
Si avvicinò il più possibile all’ospedale. Nessuno aveva dato troppa importanza alla sua presenza, nemmeno quelle che sembravano essere delle guardie.
Si soffermò a guardare le planimetrie del piano di emergenza del fabbricato che erano appese a uno dei muri. Attese che attorno a lui ci fosse un momento in cui il personale fosse ridotto al minimo nell’area della reception dell’ospedale e riuscì a sgattaiolare dall’altra parte del bancone e ad accedere a uno dei computer. Un’impiegata era impegnata in quel momento a dare indicazioni al parente di un paziente. Aveva solo pochissimi secondi per interrogare il database dei ricoverati nella struttura. Soltanto per una stanza non era indicato il nome del degente. Era un’informazione più che sufficiente.
Si avviò verso le scale e salì al terzo piano. Vide alcune guardie stazionare nel corridoio.
Sentì alcuni dottori parlare. Capì che stavano pianificando lo spegnimento dei macchinari di un degente. Il sangue gli si gelò nelle vene.
Si avvicinò alla stanza in cui immaginò di potesse trovare Davide e aprì la porta lentamente.
Non si era sbagliato, vide un uomo con il volto pallido, magro, che attendeva il proprio momento sul letto anonimo dell’ospedale, privo di conoscenza.
Sentì dei rumori provenienti dall’esterno della stanza, immaginò che mancasse poco all’inizio della procedura di spegnimento dei macchinari. Si nascose dietro un armadio nel momento in cui sentì aprirsi la porta. Sentì le voci degli infermieri che sistemavano le flebo e che ragionavano sulle ultime valutazioni del caso.
Fabio sentì crescere la voglia di piangere. Avrebbe voluto riuscire a parlare, chiedere di fermarsi, urlare, semmai, chiedere aiuto. Ma non riusciva a fare niente di tutto questo. Dentro di lui sapeva che lo avrebbe portato via e non poteva permetterlo. Gli tornò in mente uno dei discorsi che la sua mamma gli aveva fatto, ricordava le sue raccomandazioni, i suoi discorsi sul futuro, su quanto sarebbe stato bello. La sua promessa che avrebbero sempre parlato, per ore e ore, di tutto. Ma lui a parlare non ci era mai riuscito e non riusciva a dimenticare le espressioni della sua mamma, quella delusione che emergeva, latente, quando c’erano attorno altre famiglie, altre mamme che parlavano e ridevano con i propri figli. Quell’espressione di chi sapeva che a lei non sarebbe mai successo. Ricordava tutte le volte che l’aveva sentita piangere, da sola.
Avrebbe voluto piangere anche lui in quel momento. Ma si trattenne e riuscì a non farlo.
Rimase in attesa. Si accorse che gli infermieri erano usciti momentaneamente dalla stanza. Si avvicinò al letto di Davide e iniziò a scuotergli il braccio. Non vide nessuna reazione. L’uomo sembrava lontano. Sapeva che nel gioco era riuscito a parlarci e in quel momento gli era sembrato vigile.
Avrebbe voluto essere in grado di parlargli, ma era prigioniero della malattia che gli avevano diagnosticato. Stava per andar via, mesto, quando la sua mano sfiorò quella di Davide e sentì un timido movimento di quel corpo.