Il pippone di fine anno

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Ultimo giorno del 2020. In genere a questo punto dell’anno ho già scritto il mio pippone, immancabile come quello di Mattarella, ma questa volta arrivo agli sgoccioli. Un anno difficile, senza girarci tanto attorno. Ma, onestamente, di polemiche in giro se ne sentono fin troppe. E per la maggior parte, inutili. Quindi per il domani vorrei solo che si pensasse alla risposta a questa domanda: finito o ridotto il tema Covid, che si fa? Cosa possiamo progettare oggi, perché domani ci sia davvero una rinascita? Io penso a questo. Ed è un pensiero che ritengo importante, aldilà delle chiacchiere da bar o da social, che ormai non si differenziano granché. Io mi concentrei sul pensare al domani dalla prospettiva che questo mondo ci propone. È un mondo ormai diverso, anche solo da un anno fa. Forse anche le sfide che ci attendono sono diverse. Questa confusione credo che svanirà e solo allora tutto risulterà più chiaro, ma a mio avviso è proprio nell’emergenza che si deve iniziare a pianificare come ridurre i rischi, quando tutto sarà più tranquillo. E così, via. Detto questo, non posso che fare i miei auguri che il nuovo anno ci faccia tornare a respirare senza mascherina. Che ci faccia tornare a guardare il mondo senza che gli occhiali si appannino. Che ci riporti alla normalità, insomma.
Il pippone termina qui, la linea torna allo studio, o a Mattarella, fate voi.  #buonanno

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Lo schema, il mio racconto di Natale

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L’uomo era appena sbarcato in aeroporto. Recuperato il bagaglio salì sul primo taxi e chiese di essere accompagnato in città. Pagò la corsa, uscì dall’auto e si incamminò sul lungomare. Era la sera di Natale e in giro non c’era nessuno. Percepì un sibilo e di colpo un ragazzino con i capelli biondi gli si parò davanti, fissandolo senza dire una parola. Il suo cuore accelerò. Aveva già visto quello sguardo. Lo vide allontanarsi e dileguarsi in un vicolo oscuro, mentre sentiva dei cani abbaiare in lontananza. Tre mesi prima aveva ricevuto una lettera che lo aveva spinto a fare delle ricerche che lo avevano portato sino alla Biblioteca Nazionale di Helsinky per capire da dove provenisse il suo cognome. L’origine del suo albero genealogico conduceva a una antica città: Myra, in Turchia. L’uomo fissò la facciata della Basilica e si avvicinò al portone. Pensò al significato del suo cognome: il compleanno del Santo. “Signor Sinterklass” disse una voce alle sue spalle. Si voltò e vide un uomo incappucciato. “Chi sei?” rispose. “Non è importante chi sono, ma cosa sto per fare”. In quell’istante Sinterklass vide un bagliore alle spalle dell’uomo incappucciato. I cani sembravano abbaiare sempre più vicino. “Babbo Natale non esiste” tuonò Sinterklass. “Non più” disse l’uomo incappucciato che sfoderò il coltello. Sinterklass sentì il freddo della lama sfiorargli la pelle del petto e in quello stesso istante sentì un frastuono provenire dal vicolo. Un oggetto oscuro trascinato dai cani si abbattè sull’uomo incappucciato che cadde rovinosamente a terra. Un ragazzino biondo porse le redini dei cani che spingevano la slitta. “Sei l’erede” gli disse l’elfo. “Stanotte hai un compito importante” proseguì. In quel momento Sinterklass ripensò alle sue origini, al suo lontano parente le cui reliquie giacevano nella Basilica di San Nicola di Bari. Era lui Babbo Natale, o Santa Claus, il vescovo cristiano che a Myra portava i doni ai bambini poveri con una slitta trainata da cani.

#loschema

Il Tempo del Silenzio – Ep1-2

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Ep1

Wuhan

L’uomo aveva appena agganciato il camice al porta abiti. Era stanco e provato dal lavoro della giornata. Lavorava in pronto soccorso da circa cinque anni e ogni volta gli sembrava sempre più difficile sopportare il dolore e la sofferenza, soprattutto nei casi in cui non poteva fare niente per alleviarla. Non aveva molto tempo per riflettere, i turni erano sempre molto fitti e aveva soltanto poche ore per riposare. Il mattino sarebbe dovuto tornare in ospedale. Mangiò qualcosa velocemente e si coricò. In quel momento gli tornò in mente il paziente che aveva atteso il suo turno tutto il pomeriggio in sala d’aspetto. Sembrava non avesse motivi seri per essere lì. Eppure a un tratto aveva iniziato a tossire, una tosse secca, un infermiere aveva cercato di aiutarlo, ma in pochi minuti il suo quadro clinico si era aggravato e aveva iniziato ad avere problemi respiratori.

Era morto poche ore più tardi.

Pechino

Il pacco era appena arrivato dal laboratorio. Il corriere era stato veloce. Il tempo era determinante per il progetto a cui stavano lavorando da anni. Jie era un ingegnere di successo, proveniva da una famiglia povera di Pechino, ma grazie alle borsa di studio del governo era riuscito a conquistarsi un ruolo importante in una azienda informatica. Lo sviluppo della tecnologia in Cina era uno dei settori più importanti e le aziende avevano negli ultimi anni mutato la propria identità, da ditte assemblatrici si erano trasformate in aziende in grado di progettare, costruire e produrre oggetti tecnologici sempre più performanti, che rispetto ai competitor potevano contare su una caratteristica in più. Il prezzo. Gli operai non mancavano e il loro attaccamento alle aziende permettevano di investire su di loro, specializzandoli. Gli orari di lavoro a cui erano sottoposti erano devastanti, ma loro erano sempre presenti ed efficienti. Ed erano pagati poco. Pochissimo, in confronto agli stipendi che percepivano operai di quel livello nel mondo occidentale.
Posò il pacco sulla scrivania del suo ufficio e si soffermò a osservare il paesaggio che la vetrata dell’ultimo piano del grattacielo gli offriva. Sempre lo stesso, un grigiore tenue, che soffocava ogni colore. Per un attimo immaginò di vivere in quei luoghi di cui gli avevano raccontato, in Italia, per esempio.

In quello stesso istante il cellulare suonò.

Il cliente era pronto per procedere con l’acquisto del nuovo prodotto ideato e costruito dalla sua azienda. Un cellulare di ultimissima generazione.

Silicon Valley

Jonathan Valasco aveva depositato il brevetto soltanto pochi giorni prima, quella sera aveva in programma di uscire a cena con la giovane collega che era arrivata in azienda da pochi mesi. Aveva appena il tempo di passare da casa per cambiarsi, indossare qualcosa di elegante, ma senza esagerare. Aveva prenotato un tavolo in un prestigioso ristorante già in mattinata.

Quella videochiamata non era prevista. Si trattava del supervisor dell’azienda madre, la ditta che in genere acquistava i brevetti e che aveva permesso alla sua start up di diventare leader nel settore delle comunicazioni.

“Buonasera John, ti disturbo?”

“Assolutamente no.”

“Bravo, ho sempre ammirato chi si dedica con così tanta passione al suo lavoro.”

“Come mai questa chiamata, avevamo una call prevista per il giorno della consegna.”

“È proprio di questo che volevo parlarti. Abbiamo deciso di non acquistare il vostro prodotto.”

Il tempo del silenzio – #Ep1

Ep2

Pechino

Jie aprì il pacco con cura. Posizionó gli imballaggi nell’area adibita alla raccolta e soppesó il piccolo contenitore. Sospirò e rimase un attimo a riflettere. Sapeva che una volta aperto non sarebbe più potuto tornare indietro. Ogni cosa sarebbe stata diversa. E non solo per lui. Indossò i guanti protettivi e lo aprì.

Silicon Valley

Jonathan aveva chiuso la telefonata simulando disinteresse, ma era consapevole che si trattava di un danno enorme per la sua società.
Il telefono continuava a squillare senza sosta. Era Jennifer, la sua collega che aveva invitato a cena. Interruppe la chiamata e spense il telefono. Aveva bisogno di pensare alla prossima mossa. Nel suo mondo non era possibile perdere nemmeno un istante. A ogni bit corrispondevano miliardi di guadagno. O di perdita. E lui non poteva permetterselo.
Si chiese se cercare altri compratori potesse apparire una manovra rischiosa. Aprì una bottiglia di vino italiano, lo versò in un calice e ne sorseggió il contenuto, mentre osservava il profilo dell’oceano. Forse la compagnia di Jennifer gli avrebbe fatto bene, ma non aveva tempo. Era arrivato il tempo di agire. Lasciò il calice sul tavolo e si chiuse nel suo ufficio. Aprì il laptop.

A pochi chilometri di distanza.

Jennifer scagliò il cellulare contro il muro e si ruppe in mille pezzi. Aveva atteso quel momento per molte settimane. Si guardò di sfuggita allo specchio. Aveva indossato un tubino nero aderente che non nascondeva molto.

Wuhan

Il dottor Away aveva inviato un videomessaggio a un suo collega medico che esercitava la professione a Pechino. Gli aveva raccontato del caso di un medico morto per complicazioni respiratorie il giorno prima, ma il suo collega gli aveva detto di non preoccuparsi, che sicuramente si era trattato di un caso isolato. Non era per niente convinto. Si controllò la temperatura corporea. Tutto regolare. Aveva soltanto un po’ di tosse secca. Una patologia assolutamente normale nel periodo invernale.

Pechino

Jie posò il microprocessore sul piano di lavoro e puntò la luce per osservarlo meglio. Si sentiva soddisfatto. Quell’oggetto rappresentava il duro lavoro degli ultimi anni. Per completare quel momento mancava soltanto un passaggio. Inserire il processore nella scheda madre di supporto e collegarla a un computer molto, molto, potente. Ma per quel momento avrebbe dovuto attendere. Un messaggio del suo capo era appena comparso sul display del cellulare. Era prevista una riunione imprevista e importante. La convocazione era imminente.

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#nextgeneration o #pastgeneration?

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Da ormai un po’ di anni la politica sembra vittima di un “nuovismo” misto a populismo che non son solo non ha nulla di innovativo, ma che sembra averci ricatapultati nella prima repubblica. Ex rottamatori, ex riformatori, ex leader, ex scambisti di ruoli a parlamento, ex comunisti padani statisti, sono tutti impegnati in un’unica missione: spartirsi i soldi europei (debiti, in realtà) per l’ennesima regalia da capitalizzare alle prossime europee. Un governo ormai latitante che non da i numeri, ma i colori. Un’emergenza gestita in modo improbabile e la mancanza di progetti seri fanno il resto. Continuo a chiedermi perché l’Italia debba essere sempre e solo la culla delle pretese senza mai fare un solo passo in avanti. Di chi con un piccolo potere è in grado di piegare anche solo l’illusione di poter cambiare qualcosa. Di innovare, per esempio. Di chi ha interesse a lasciare sempre tutto così com’è, perché solo così può giustificare la propria esistenza.
La politica dovrebbe servire a gestire fasi di cambiamento, non a spartirsi torte. Quella era la prima repubblica. Ma, era?
#pastgeneration

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Non sei sola

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Non sei sola.
Quando ti cerchi,
oltre il riflesso degli specchi.
E in una pagina bianca,
scopri che hai paura.
Anche se non lo ammetterai.
Non sei sola,
quando bruci il passato.
Che non può scomparire.
E giochi,
ma la più male.
L’amore è un soldato.
E sai che non sarai tu,
a perdere.
Ma ogni nuovo giorno,
é un ritmo,
una musica.
Che riscopre i tuoi occhi.
E così,  ora lo sai,
che non sei sola.


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Questa stupida pagina bianca

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Credo di non aver mai avuto la sindrome da foglio bianco, perché, in fondo, le idee non mi sono mai mancate. Ma il tempo cambia le prospettive, le sfuma. Così ho iniziato a chiedermi se quelle idee fossero davvero così giuste. Ed é successo perché vedevo intorno a me una realtà distorta. Mi sono chiesto se fossi io a sbagliare, quando per la prima volta presi un quattro su un tema da otto. E soltanto perché certe cose, diceva la professoressa democristiana, non si potevano dire. Quando la suora diceva agli altri bambini di non parlarmi perché i miei genitori erano separati. Quando il genio di turno mi diceva che non sarei mai arrivato a fare quello in cui credevo e che nella vita é più importante compiacere chi conta che portare avanti le proprie idee. Con il tempo ho iniziato a lasciare sempre più spesso i fogli bianchi, a stare zitto, fino a quando ho iniziato a sentire dentro un profondo senso di vuoto. E mi sentivo sempre più colpevole. Perché quando silenzi un’idea, sei anche tu il carnefice. Perché se non ci credi tu, non ci crederà mai nessun altro al posto tuo. E proprio quando avevo dimenticato di saper scrivere, ritrovai quel vecchio tema delle superiori. C’era quella rabbia di chi non vuole arrendersi, di chi non vuole abbassarsi alla logica del “tanto é così che va” e che se ne fotteva se avesse preso quattro, raccontava le cose per come andavano dette. A quella parte di me devo una spiegazione a tutto questo, a questa stupida pagina bianca.

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Io l’amore l’ho cantato

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Io, l’amore,

 l’ho cantato.

Insultato, poi cantato ancora.

L’ho urlato,

scritto sui muri abbandonati.

Inghiottito come un sorso di pessimo vino.

Vomitato da un palcoscenico.

Per amore, mi hanno deriso.

Perché chi lo raccontava,

era un perdente.

Io l’amore,

l’ho temuto.

Cercato.

E ne sono sfuggito.

Rincorrendo qualcosa che non conoscevo.

O qualcosa che credevo di conoscere.

Mentre continuavo a sbagliare.

Io l’amore, l’ho trovato.

Per caso,

tra le pagine di un libro con le pagine bianche.

Perché ogni amore ha le sue regole,

le sue parole.

I suoi silenzi.

Io l’amore,

l’ho cantato.

E non me ne sono mai pentito.

Né mai me ne sono vergognato.

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Sul filo dell’acqua, il nuovo romanzo di Sara Rattaro

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Sul filo dell’acqua è un vortice. Un incastro perfetto di vite, istanti, pensieri, paure, fallimenti e rinascite. C’è tutto il mondo nelle parole che Sara Rattaro compone riuscendo a creare un meccanismo magistrale. I protagonisti sembrano rincorrersi, uniti, appunto, da un filo invisibile. Leggendo questa storia, mi è venuto in mente il brano di Marco Masini “Spostato di un secondo”, quell’attimo che può cambiare la vita di più persone. Tutto inizia con il salvataggio di una donna durante l’alluvione che sconvolse Genova, per poi intrecciare le vite degli altri protagonisti. Storie nelle storie, amori, tradimenti, amicizia, delusioni, sogni infranti, ma anche l’arte del rialzarsi, così come proprio Genova insegna. Come amori che sembrano galleggiare sul filo dell’acqua, un attimo prima pronti a nascere, un secondo dopo ad affogare e morire.